di Livia Caliopi Biro
Settimana scorsa si è tenuto l’evento mondiale Fashion Revolution Week, che tutti gli anni ricorda le condizioni di lavoro disumane nelle filiere del sistema moda. Il movimento Fashion Revolution, fondata dalle attiviste Orsola de Castro e Carry Somers, nasce in seguito al crollo dell’edificio Rana Plaza in Bangladesh, dove venivano prodotti vestiti per negozi fast-fashion occidentali. La tragedia avvenuta il 24 aprile del 2013 causò la morte di più di 1000 persone e oltre 2500 feriti e portò alla luce le condizioni in cui vengono prodotti i nostri vestiti. Molte aziende negarono il rapporto con il fornitore, fino al ritrovo delle loro etichette tra le macerie.
Sono passati 8 anni ed è cambiato poco.
A Novembre del 2020 sono morte 12 persone in seguito a un’esplosione in una fabbrica di Gujurat, India. Al Cairo a marzo di quest’anno 20 persone sono decedute in un incendio e un mese dopo altre 8 persone persero la vita in un crollo di un edificio. Ci sono state anche segnalazioni di abusi nei luoghi di lavoro. A gennaio presso un fornitore di H&M una dipendente di 20 anni è stata violentata e uccisa dal suo supervisore. In seguito il marchio ha lanciato un’indagine condotta dal WRC (Worker Rights Consortium).
Purtroppo è pressoché impossibile per i lavoratori difendere i propri diritti per la scarsa rappresentazione sindacale.
La pandemia, che sta travolgendo il settore dell’abbigliamento, basta guardare a cosa sta succedendo in Rajastan per via del Covid e molte fabbriche senza forza lavoro, fa emergere e amplifica una crisi già esistente.
Un’indagine di McKinsey & Company dell’aprile del 2020 rivela che, durante la prima onda di chiusure, tre quarti dei fornitori hanno subito annullamenti di ordini oppure hanno dovuto accettare rinegoziazioni su accordi contrattuali. A marzo dell’anno scorso la cancellazione di miliardi di dollari di ordini ha stravolto la vita di 1,2 milioni di persone.
Fast fashion sembra essere sinonimo di paghe basse, maltrattamenti e scarsa sicurezza. Tali problemi persistono non solo perché le persone fanno acquisti di prodotti a basso costo, ma per colpa dei colossi della moda che hanno come priorità il profitto e non condividono con il pubblico informazioni complete sulla produzione dei capi.
La Fashion Revolution Week incita all’azione concreta e incoraggia gli individui a chiedere pubblicamente “Who Made My Clothes?” (chi ha creato i miei vestiti?) direttamente ai brand. Per avere una visuale ancora più chiara, il sito dell’organizzazione fornisce molte informazioni a riguardo. È arrivato il momento di conoscere, solo così si può fare la differenza. Positiva.