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venerdì, 20 Settembre, 2024

UNA VITA PER IMMAGINI. Il racconto delle piogge monsoniche negli scatti di Steve McCurry – Parte 3

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di Alessandro Giugni

L’articolo odierno conclude il viaggio che abbiamo compiuto nelle due precedenti settimane alla scoperta di alcune delle più significative fotografie scattate da Steve McCurry durante l’esplorazione del subcontinente indiano, in particolare quelle del sarto di Porbandar e della cascata di Goa.

Nel 1983, poco dopo essere giunto in India, il fotografo americano aveva trascorso alcuni giorni ad Agra, sede del Taj Mahal, l’imponente mausoleo edificato nel 1632 per volere dell’Imperatore Shah Jahan al fine di onorare la memoria della moglie prematuramente scomparsa.

È in questa città che McCurry, facendo fruttare quel metodo di lavoro, fatto di studio dei luoghi, attesa e sapiente ricerca della luce migliore, che lo renderà famoso in tutto il mondo, scatta una delle sue più note fotografie. Al di là del fiume Yamuna, che fluisce a poche centinaia di metri dal mausoleo, correvano le rotaie dei treni a vapore a quel tempo impiegati per il trasporto di merci e persone. In prossimità dello scambio ferroviario, McCurry pazientemente osserva il viavai dei treni. Ed è solo dopo un attento studio durato alcuni giorni che, al sorgere del sole, impugna la macchina fotografica e realizza un unico, poetico, scatto: sullo sfondo il Taj Mahal, parzialmente sfocato e dai colori tenui, quasi fossimo in una fiaba; in primo piano una locomotiva circondata da dense nuvole di fumo; al centro della fotografia, due uomini viaggiano in piedi sul muso del treno. È una fotografia nella quale è racchiusa l’essenza della società indiana di allora. È il risultato di un sapiente contemperamento di orario, luce, soggetti e inquadrature. Ed è una fotografia unica e irripetibile, è la testimonianza di un mondo che non esiste più: oggi non solo non v’è più traccia dei treni a vapore, ma anche il berretto bianco indossato da uno dei due uomini non viene più utilizzato.

Forse ancor più forte e poetica è la fotografia che McCurry scatta durante l’attraversamento del deserto del Rajasthan alla volta di Jaisalmer. Un luogo questo nel quale non pioveva da oltre dieci anni e dove frequentemente solevano scatenarsi forti tempeste di sabbia. A causa del caldo insopportabile e dell’incombente tempesta, McCurry dovette fermare la macchina in mezzo al nulla. Accanto a lui solo un piccolo gruppo di donne intente alla manutenzione della strada, che riparavano con le loro mani. Vedendo avvicinarsi l’imponente massa sabbiosa, esse si strinsero in cerchio attorno ai bambini che le accompagnavano, così da proteggerli. Fu questione di pochi secondi: la tempesta di sabbia le travolse, le loro vesti iniziarono a muoversi con vigore, McCurry sollevò la macchina fotografica e immortalò quella che a tutti gli effetti può essere considerata un simbolo della lotta per la sopravvivenza che quelle donne ogni giorno erano chiamate a compiere.

Chiudiamo il nostro viaggio con la fotografia che può essere considerata la massima espressione del paziente e meticoloso metodo di lavoro del fotografo americano. A Herat, città dell’Afghanistan occidentale, nel 1992, poco dopo la fine dell’occupazione sovietica, per 7 lunghi, interminabili, giorni McCurry stazionò su una collina dalla quale poteva osservare i resti di quella città che per 10 anni era stata oggetto di continui bombardamenti. Una sola famiglia, tornata dall’Iran dopo essere fuggita durante gli scontri, occupava i resti di quella che, con ogni probabilità, era stata la loro casa. Il fotografo scattò la medesima fotografia più e più volte in diversi momenti della giornata, fino a quando, al tramonto del settimo giorno, un’intensa luce rossastra irradiò tutta Herat mentre la famiglia afghana si trovava riunita intorno al fuoco. «Ho scelto un solo scatto che era il simbolo della loro condizione di solitudine, ma anche di coraggio e caparbietà».

L’immagine perfetta era stata catturata.

 

 

 

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