di Pino Esposito
Non chiedersi “chi?” prima di dichiarare il proprio amore. Non esigere comprensione piena e immediata delle persone di cui ci sentiamo amici. E se fondassimo la politica, la nostra società su questo genere di amicizia? – su quest’amore indeciso e vulnerabile, che non distingue l’amico dal nemico.
Si lancerebbe un messaggio folle: “Non c’è nessun nemico!”. Ci lascerebbe insicuri con quel disatteso “chi sei?”. E se rincominciassimo a pensare l’amicizia da qui, da zero? Un’amicizia non liquidata in un patto con i propri simili, ma aperta a una promessa incalcolabile e fragile, a una richiesta caritatevole, cioè di essere capito o capita un giorno. – Un’amicizia sopra l’amicizia, che reclami soltanto di essere compresi, soltanto il tempo di capire; che non dia spazio al “chi è”, ma al “può essere”, all’improbabile, all’imprevisto, persino al mio fallimento. Un’amicizia come atto di fede, oltre il nemico e l’amico stesso, gratuita e recondita, che sfiora tanto il malinteso tra gli uomini quanto l’amore di Dio. Un incontro tra gli uomini, tra me e te, amico mio, e l’Altissimo, tra disproporzioni e dissimmetrie inesauribili, l’instante di una promessa, di un sogno che forse basterà a salvarci, o almeno a non farla finita ora e ad arrivare, se non altro, a domani. Un’amicizia in nome dell’avvenire, di ciò che potremo essere, non di ciò che mi sta vicino ma dell’uomo che da lontano è venuto a trovarmi.
Tali, in breve, alcune caratteristiche del pensiero del filosofo francese algerino Jacques Derrida, tratte dal suo studio sulle politiche dell’amicizia, da un libro che gira in mille versi il celebre aforisma tramandatosi da Aristotele, a Montaigne a Nietzsche, con tormento: “Oh amico [miei amici], non c’è nessun amico”. L’antico enigma ammette e nega l’esistenza dell’amicizia, allo stesso tempo; infine trova pace di là dell’amicizia stessa, del modo tradizionale che abbiamo di intenderla. Vi si scopre la confidenza più intima e autentica che un amico onesto può farmi: “Non ci sono amici …”. Nella più fraterna delle confessioni, chiede di usargli quest’amicizia, questa carità di comprenderlo in questa deriva, di non abbandonarlo con questo segreto. Lo chiede con la fiducia di cui solo un vero amico è capace. E quand’anche non ci sia un solo amico, uno, e nessuna amicizia sarà mai all’altezza del sogno che alimenta, lo si evoca: “Oh amico…”, in sogno. Se è vero che nel folle e oscuro messaggio dell’antico enigma – in cui la ragione dorme – il sonno della ragione produce mostri e spaventa, il sogno della ragione (I have a dream) produce diritti. Il diritto a essere amici, un giorno.
Il valore del “sogno” è glorificato nella recente enciclica di Francesco, Fratelli tutti, assieme all’eredità di Martin Luther King: il “sogno di una società fraterna”, l’“aspirazione mondiale alla fraternità”, la “sfida di sognare e pensare a un’altra umanità”, la “visione del futuro” e del nostro “destino comune”, il “contributo profetico e spirituale” in questo progetto. Il sogno e la promessa: “Ogni uomo e ogni generazione” – dice il Santo Padre –“racchiudono in sé una promessa che può sprigionare nuove energie relazionali”; perché “l’altro non […] rinchiuso in ciò che ha potuto dire o fare, […] va considerato per la promessa che porta in sé”.
Politiche dell’amicizia, pubblicato da Derrida negli ‘anni della speranza’, nei primi anni Novanta del secolo scorso, è un libro che rifiorisce nella lettura dell’enciclica sull’“amicizia sociale” con la sua proposta di una “volontà politica di fraternità”. Entrambi i testi rispondono all’aspirazione di fondare la politica su un’amicizia diversa da quella che ci hanno insegnato finora. Fratelli tutti ci scuote e ci interroga, ci chiede se siamo pronti a vivere nell’incertezza, in un’amicizia nuova che sa ancora di casa, come anche e finalmente di “viaggio” e di “incontro” (due parole chiavi della lettera apostolica).
Dopo il secolo dei Totalitarismi, degli accorpamenti monolitici da parata, dei raduni di masse racchiuse, dei gesti mimetici in sincrono (uno per tutti), dopo la distruzione dell’altro e dei tanti, del diverso, del nemico esterno e interno, dopo tutto questo, siamo pronti? Saremo mai pronti un giorno a vivere in una società aperta a tutti? Avremo mai fiducia nella promessa degli altri? – quand’anche non ci fosse un solo amico intorno a noi, quando lo evocheremo, pregheremo come fa uno straniero. Si potrà mai fondare una politica su questo? Si potrà mai scoprire un “amore politico” (capitolo V dell’enciclica, La migliore politica)?
Il Vescovo di Roma esorta a “riconoscere ogni essere umano come un fratello o una sorella”, a “ricercare un’amicizia sociale che includa tutti”, in un impegno che diventi “esercizio alto della carità”. Invita a scoprire l’amore delle relazioni affettive nei rapporti sociali, a riconoscere e ammirare nel popolo, e nelle politiche per il popolo, il “volto [sconosciuto] di ogni persona”.
Fratelli tutti evoca le sfide della Chiesa in tre figure inconsuete dell’amicizia (per come la conosciamo): l’estraneo, il carcerato e il materialista. Francesco si riferisce all’immigrazione benedicente, all’ergastolo “inammissibile” quanto la pena di morte che esso nasconde, all’ateo cui l’amore di Dio è rivolto non meno che al cristiano. Li invoca. Più di cento volte recita la parola “tutti” (“accogliere tutti”, “spazio per tutti”, il “mondo è di tutti”, “impegno di tutti”, “fraternità aperta a tutti”…). Conserva l’antico l’enigma (“Oh miei amici …”) e lo scioglie in una preghiera rivolta al senso sacro della vita e al mistero dell’altro.
Mai come in queste ore, in questa epoca che sa di catastrofe, quando non sappia di commedia umana, avvertiamo fame di amicizia, di un sapore di Dio che ridesti dall’indifferenza. “A me che importa?”: oggi, come ieri, parte dell’umanità ripete le parole di Caino. Costui non si fece “custode” del proprio “fratello” e, a maggior ragione, neppure del ‘mistero dell’altro’ che Caino non preserva né tramanda. Non si fece guardiano di ciò che mi azzarderei a chiamare il ‘mistero della porta accanto’. Uso questa espressione tra il serio e il faceto per ricondurre il nostro discorso, forse un po’ astratto, ai fatti quotidiani, alla vita di tutti i giorni dotati, anch’essi e a modo loro, di un mistero antico come il mondo. Da quella porta, in cui abitano gli ‘altri’, e da lì soltanto, passa l’unica via possibile alla conversione.
L’omicida come l’invasore non bussa alla porta. Insegna invece l’infrazione, a dimenticare lo stile divino di una visita. Addestra a scordare l’annuncio stesso dell’Angelo Gabriele alla Vergine Maria, il quale svela una parte essenziale di un progetto di pace: “Non temere”, dice l’Angelo (Lc 1,30). La guerra, non escluse quelle che si consumano a meno brevi distanze dalle porte delle nostre case, urla il contrario, parla con terrore, non della vita, ma della morte, della più insapore ultima cena servita in questa terra.“Dio”, dice Francesco, “ha cambiato la storia bussando al Cuore di Maria”. In questi giorni crudeli, il Santo Padre ci esorta: “Bussiamo a quel cuore”. Il popolo ucraino e il popolo russo sono consacrati al suo Cuore immacolato. Ella è la Madonna della Misericordia che riunisce e custodisce la gente sotto il suo manto, simbolo della convivenza nella moltitudine, cui una politica internazionale ispirata può ambire.
Dall’omelia del Santo Padre presso l’ossario militare di Redipuglia, cui mi sono riferito sopra, a omelie più recenti, a pochi giorni da una rinnovata “crudeltà selvaggia”, si arriva a capitombolo, dopo l’annuncio reiterato di una “Terza guerra mondiale a pezzi”. “Oggi”, Francesco asseriva già nel 2014, “forse si può parlare di una terza guerra combattuta ‘a pezzi’”. Di ritorno dalla Repubblica di Corea, dichiarava: “Siamo entrati nella Terza guerra mondiale, solo che si combatte a pezzetti” (18 agosto 2014). Lo ribadiva a Sarajevo nel 2015 e, ancora nel 2020, non smetteva di denunciare la nuova natura del conflitto, l’esistenza e la forma assunta da una “guerra mondiale a pezzetti” (21 febbraio). Appaiono chiari e allarmanti i segni della fine dell’“amicizia sociale”, venuta meno nel momento in cui si è smesso di “ascoltare l’altro” (videomessaggio da Buenos Aires, dicembre 2020).
A dieci anni dall’inizio del pontificato del Papa ‘venuto da lontano’, celebriamo nella figura di Francesco non il profeta della nuova guerra, bensì e specialmente il rifondatore di una fraternità mondiale. Lo ricordiamo nella festività della Pasqua.
Nel recentissimo messaggio Urbi et Orbi pronunciato dalla loggia della Basilica Vaticana, abbiamo sentito parlare di una “Pasqua di guerra” e dello spirito di Caino che è ancora in noi. In effetti, che cosa abbiamo da celebrare, oggi, dell’annuncio di Cristo risorto: “Pace a voi!” (Gv 20,19)? Festeggiamo il carnevale della Pasqua, il ripudio della visita di Gesù, la perversione della pace! Quel che ne rimane è un atteggiamento deviato di chi crede semmai al silenzio della tomba, alla quiete dello schiavo. E per chi non avesse voglia di lasciarsi andare a questo genere di feste, non resta che ricominciare daccapo, che riassestare la santità delle “porte aperte” ai migranti e ai rifugiati: pulsate, et aperietur vobis, recita la frase evangelica che fa girare su nuovi perni l’enigma dell’amicizia (Lc 11, 9). ‘Pulsare’ si usa dire in latino, come si dice del cuore che batte. È questo battito che ci fa alzare per andare ad aprire la porta e offrire il pane dell’accoglienza. “[…] anche se non si alzerà […] perché è suo amico”, recita Lc 11, 8, si alzerà al suono del verbo che, nel latino del Vangelo, richiama il cuore: “Pulsate”! Se non vedi davanti a te un amico, almeno ascolta il battito del suo cuore.
Si tratta di “sperimentare la bellezza della pace”. Questo significa “accedere”, una buona volta, “con libertà ai Luoghi Santi” — leggo dal discorso benedicente dello scorso 17 Aprile. Francesco si riferisce a Gerusalemme, come pure a ogni luogo che io possa chiamare ‘casa’, a ogni uomo che io possa chiamare ‘fratello’.
Non manca una preghiera del pontefice per i popoli del Libano, della Siria, dell’Iraq, dello Yemen, del Myanmar, dell’Afghanistan, di tutto il continente africano e dell’America Latina. Sullo sfondo di uno scenario mondiale di ostilità a pezzi e con alle spalle due anni di pandemia, torniamo a credere che la pace non sia impraticabile, come l’amicizia su questa terra, e che la guerra non sia inevitabile.