di Mario Alberto Marchi
“Potremmo vivere di turismo”. Quante volte abbiamo sentito pronunciare questa frase, suggerita dalla consapevolezza – anche diffusa e popolare- che effettivamente il nostro paese è capace di un’offerta unica, probabilmente, al mondo.
No, di turismo non potremmo vivere, ma di sicuro con un turismo ben organizzato e pianificato, potremmo tutti vivere meglio. Lo dimostrano, al di la’ delle suggestioni, un paio di numeri: il 13% del PIL e i 4,2 milioni di occupati, tutto riferito all’economia diretta, ma con ricadute nell’indotto che è perfino difficile calcolare.
Si tratta di un settore che negli ultimi trentanni ha vissuto notevoli trasformazioni, con da una parte la riduzione del numero di strutture ricettive di piccole dimensioni e a gestione famigliare, favore di una maggior fisionomia imprenditoriale, dall’altra si sono sviluppate iniziative legate soprattutto al territorio.
Resta il fatto che almeno dalla fine degli anni ’80, continuiamo a dirci che il turismo è fondamentale, ma ne evidenziamo continuamente le fragilità.
Innanzi tutto c’è un problema strutturale che rasenta l’assurdo: nella classifica delle località italiane per numero di presenze turistiche, nelle prime trenta posizioni ne figurano solo tre del mezzogiorno: Napoli, Sorrento e Vieste. Il significato è chiaro. Per quanto il territorio offra attrattive naturali scontate, perché’ queste possano trasformarsi in opportunità di imprenditoria turistica, mancano investimenti e di conseguenza strutture. Negli ultimi tre anni, il settore in generale ha fatto segnare progressivi miglioramenti, ma sempre con margini troppo fragili e soprattutto sempre più’ legati ai flussi provenienti dall’estero, che dal 2017 hanno superato quelli interni.
La Lombardia rappresenta la regione che attira il 13,6% della spesa seguono: il Lazio con l’11,4% , la Toscana con il 11,3% , il Veneto con il 11,3% e l’Emilia-Romagna con il 10,2% . Nel complesso in queste cinque regioni si concentra oltre la metà (54,3%), della spesa da parte dei turisti stranieri
Il significato è chiaro: il turismo deve essere legato a un sistema imprenditoriale forte. Dove questo manca in generale, anche il settore turistico ne soffre. Attenzione, perché non stiamo parlando di pochi soldi. Nelle cinque regioni citate, entra ogni anno solo da fuori confini, un fiume di quasi 45 miliardi. Tanto per capire quali siano i margini degli interventi pubblici, il recente Decreto Rilancio, comprende provvedimenti vari per un valore di circa 4 miliardi, distribuiti su tutto il territorio nazionale, a fronte di un danno solo per i tre mesi di chiusura delle attività per emergenza sanitaria, di quasi 7 miliardi e mezzo, secondo una stima di Confcommercio.
E pensare che nel gennaio del 2017, dopo anni di assenza istituzionale sul tema, l’allora governo Gentiloni produsse con clamore un Piano strategico di Sviluppo del turismo che avrebbe dovuto abbracciare un quinquennio. Ovviamente non solo è tutto fermo, ma quel poco che era stato avvito, ora è completamente raso al suolo.
Anche all’epoca a produrre il tutto fu un Comitato, che così illustrava le linee di intervento.
“Innovare, specializzare e integrare l’offerta nazionale Accrescere la competitività del sistema turistico, sviluppare un marketing efficace e innovativo, realizzare una governance efficiente e partecipata nel processo di elaborazione e definizione del piano e delle politiche turistiche”.
C’era insomma dentro tutto, fuorché l’unica cosa davvero necessaria: gli investimenti. Ma, come al solito, non solo una questione di soldi. I potenziali soggetti coinvolgibili nello sviluppo turistico, scappano a gambe levate davanti a ostacoli che sono ormai quasi genetici nella nostra economia: l’incertezza delle norme ( basti pensare a quanto ambigua è le legislazione che regolamenta i cosiddetti B&B), la mostruosa burocrazia legata alle concessioni edilizie e ristrutturazioni, i vincoli ambientali che spesso finiscono per condannare territori alla morte, invece che tutelarli e non da ultima la giungla in fatto di contratti di lavoro, da un lato altamente sindacalizzati, dall’altro talmente confusi da permettere situazioni di sfruttamento e di conseguenza scarsa professionalità.
Come uscirne? Si potrebbe iniziare investendo un po’ dei miliardi che pare sia in arrivo dall’Europa, ma a quanto pare, anche stavolta, il turismo è in fondo alla classifica delle attenzioni.