di Abbatino
Silvio ci riprova, PDL 2.0, ma su basi diverse ed equilibri diversi. È suggestiva la proposta di un partito così pesante e forte, che l’Italia non ha mai visto; neppure nella sfortunata fusione tra Forza Italia e AN si poteva ipotizzare un 50% dei consensi. Adesso sulla carta i numeri ci sarebbero, almeno per pensare al partito conservatore di stampo anglosassone che governa la nazione con linee guida chiare, fondate su un programma di centrodestra. Il punto però non è la suggestione ma la gestione. È storia, che la mancanza di organi di autogoverno del vecchio PDL ne ha paralizzato l’azione e la longevità. L’implosione non fu dovuta ai noti dissidi tra Fini e Berlusconi, ma all’assenza di una classe dirigente democraticamente eletta dagli elettori del centro destra, la quale si limitava a fare da “yes man” al solito Berlusconi. Adesso Silvio è fuori dai giochi, Forza Italia è marginale e Berlusconi non avrebbe quel ruolo di federatore di alto profilo che aveva oltre 10 anni fa. Adesso l’asse è a destra, con due leader giovani che, mantenendo la loro specificità, sono complementari e non omologati ad un politicamente corretto che stuccherebbe. Valorizzare le differenze anziché annichilirle, in un quadro di alleanza, è più forte del un calderone di un partito troppo grande e senza regole chiare. La democrazia interna ai partiti, come vuole la costituzione, come viene garantita? Come la farsa delle primarie del PD? I partiti non hanno uno status giuridico chiaro. Immaginiamo assemblare alcuni pezzi di un puzzle che non torna: alla fine si rinuncia e si perde tempo. Allora meglio vincere nelle differenze e con le bandiere in mano, ma vincere, che perdere con una bandiera che non si riconosce come propria. L’identità, anche in politica, è da sempre un valore al quale in pochi sono disposti a rinunciare. Pochi.