di Gabriele Rizza
All’indomani della vittoria del centrosinistra alle amministrative, torna alla carica un sogno proposto dal segretario del PD, Enrico Letta: un nuovo Ulivo, ossia la riproposizione in chiave moderna del “format” elettorale che negli anni della seconda repubblica permise a Romano Prodi di sconfiggere Silvio Berlusconi. A seguirlo, un altro vecchio leader del PD, poi fondatore di Leu, Pier Luigi Bersani che però usa la formula Cosa di sinistra e progressista. Il ragionamento è chiaro: secondo Enrico Letta, e parte della nomenclatura del PD, il centrosinistra unito vince. Del resto, quella del “insieme si vince” è una constatazione buona per tutti i partiti, destra o sinistra che sia, lo abbiamo sentito e lo sentiremo ad ogni turno elettorale.
Dietro questo nuovo Ulivo c’è però un assestamento che il PD cerca su due fronti: il primo, e forse anche il principale, è il rapporto con il Movimento Cinque Stelle. Alleato incerto, non definitivo, che il PD vorrebbe come fosse una nuova Margherita, magari in salsa moderna e quindi più populista e più per il sud Italia, specie ora che è guidato da un personaggio “amico” come Giuseppe Conte. Enrico Letta punta a prendere due piccioni con una fava: saldare l’alleanza nel momento in cui il PD ha una posizione di forza rispetto all’alleato e cementare quel 15-20% che il movimento può portare in dote alla coalizione. Perché l’altro fronte, alla fine, sono le elezioni del 2023 (se Draghi salirà al Quirinale saranno il prossimo anno) e, federare i Cinque Stelle con le altre anime della sinistra e del mondo liberale, potrebbe portare ad una vittoria o ad una non vittoria del centrodestra. Addirittura, il sindaco di Firenze Nardella, propone di dialogare anche con Forza Italia.
Tutto bello, se non fosse che l’Italia in 25 anni è cambiata. Prima di tutto, per i 5 Stelle sarebbe l’ennesimo autogol prendere parte ideologicamente a questo nuovo Ulivo, sarebbe come carezzare quella politica che hanno contestato per anni, cosa che li ha portati al successo elettorale. Poi, una grossa federazione di partiti era l’ideale tra gli anni novanta e duemila, quando il Berlusconi dei tempi d’oro aveva creato le condizioni per il bipolarismo e il Paese abbracciava con entusiasmo il maggioritario. Adesso, siamo in un sistema elettorale più proporzionale, la sfiducia nei partiti è ai massimi livelli, abbiamo avuto più governi tecnici che politici, tanto che ci si aggrappa tutti ad una figura tutt’altro che politica, Mario Draghi. Soprattutto, manca il collante ideologico: andava bene l’antiberlusconismo, perché il successo del Cavaliere era reale, adesso ci si terrebbe uniti intorno al pericolo del ritorno del fascismo – populismo, semplice réclame elettorale che nel 2018 ha dimostrato la sua inefficacia. Semplicemente perché il fascismo non c’è. Il PD si basa sul suo successo ottenuto con la linea dura del lockdown e con il sostegno al green pass, ma prima o poi tornerà la realtà delle difficoltà degli italiani, e questo non basterà. A federare, e a vincere.