Il caso dello stupro di Palermo è, senza dubbio, un qualcosa che è riuscito a smuovere le coscienze di tutta Italia, causando scandalo, indignazione e, talvolta, perfino rabbia in numerose persone che si sono riversate sui social network a condividere i loro sentimenti di disgusto e desideri di vendetta. Tante cose si sono dette sulla vicenda, tante altre se ne diranno durante gli interrogatori degli indagati e durante il processo, mentre però si continua ad ignorare il vero problema di cui, invece, bisognerebbe dibattere senza tregua, specialmente in situazioni come queste: l’androcentrismo, ovverosia quella attitudine culturale tutta occidentale di mettere l’uomo, inteso come genere, al centro dell’equazione sociale, sottraendo invece alla sfera della femminilità quasi ogni importanza o funzione che non sia in qualche modo relegata al mantenimento dello spazio domestico o della famiglia.
Oggi, quindi, non voglio aggiungere la mia voce al coro polifonico di opinioni che si possono leggere in rete, poiché sarebbe completamente inutile a quel grande dolore che Seneca, giustamente, aveva già definito “muto” quasi due millenni fa. Ciò che spero, però, è di contribuire in minima parte a fornire una visione differente sulle ragioni che spingono certuni ad adottare comportamenti sessuali deviati, ad infliggere una sofferenza del genere ad un’estranea o, perfino, ad un’amica.
Nell’olimpo dei libri che hanno avuto, ed hanno tutt’ora, un’importanza primaria nella formazione di quasi tutti gli antropologi e perfino dei filosofi, vi è senza ombra di dubbio il capolavoro dell’antropologo italiano Francesco Remotti, Contro Natura: una lettera al papa[1], che, forse più di qualunque altro testo, ha contribuito a cambiare radicalmente la visione sulla famiglia, la sessualità, e, più in generale, il modo che gli uomini hanno di rapportarsi gli uni con gli altri. Questo testo mostra, senza ombra di dubbio, come l’idea occidentale di una struttura sociale immutabile, stabilita ipso facto, sia in verità qualcosa di estremamente fallace, a cui risponde solamente il nostro specifico contesto culturale. Ciò significa, per esempio, che la famiglia nucleare così come la intendiamo noi occidentali (padre-madre-figli) sia in realtà tutt’altro che naturale. Se guardiamo al complesso delle culture mondiali, possiamo notare con assoluta facilità che l’idea di famiglia sia estremamente variegata e che racchiuda, al suo interno, la poliginia[2], la molteplicità dei mariti (basti pensare agli Abisi, agli Irigwe e ai Birom dell’altopiano di Jos in Nigeria o agli Inuit e ad altre popolazioni del Camerun dove i matrimoni e i coniugi si possono sommare pressoché all’infinito)[3], il matrimonio omosessuale riconosciuto e perfino una forma di transessualità culturale, in cui si percepisce una donna nubile come un uomo capace di generare prole con sua moglie tramite l’ausilio di uomo che fa da “padre surrogato”, senza contare il celebre “matrimonio col fantasma” condiviso tanto da alcune culture africane quanto da culture asiatiche.
Il testo di Remotti non si ferma però qui e ci mostra come nel pensare alle categorie di maschile e femminile noi uomini occidentali compiamo errori semantici e semiotici di una certa rilevanza, ormai talmente naturalizzati nel nostro modus cogitandi et loquendi da non rendercene nemmeno più conto. Nel descrivere un uomo, infatti, non abbiamo problemi a dire “l’avvocato”, “il medico”, “il presidente” et similia, definendoli cioè tramite l’ausilio della professione, strumento par excellence della definito sociale; nel descrivere le donne, al contrario, quasi mai ci troviamo a usare le qualifiche professionali o sociali, ma tendiamo, naturalmente, ad adottarne una descrizione legata al nucleo familiare. Ecco allora che nel tentare di definire una donna, ci troveremmo molto facilmente a dire “la moglie di X” o “la sorella di Y”, quasi come se queste stesse donne non avessero vita propria, ma fossero legate indissolubilmente alla vita del marito/padre/fratello.
Come non vedere in questa forma istituzionalizzata ed interiorizzata di sottomissione la premessa di tutti quegli atteggiamenti che, forti di mancanza di educazione, debolezze psicologiche e talvolta di deviazioni del comportamento sessuale, possono poi sfociare in episodi come quello che negli scorsi giorni ha scandalizzato tutta Italia? Come non vedere in queste idee immutabili e quasi religiose di maschile e femminile, di famiglia nucleare, di tradizione, di ipse dixit, le ragioni più evidenti di questa imparità, di questa sofferenza, di questi abusi sistemici? Ecco perché è l’educazione e non la punizione, come invece hanno suggerito alcuni politici e personaggi famosi, ad avere un ruolo chiave nel cambiare le cose: bisogna fare vedere agli altri la varietà del mondo, la bellezza della diversità sulle idee di famiglia, di donna, di uomo, di matrimonio, di procreazione per minare alle fondamenta questo pensiero androcentrico che è tutt’altro che universale, divino, veritiero.
[1] testo citato, Laterza Editore, Bari 2008
[2] ibid. pp.109-118
[3] ibid. p.136
di Stefano Sannino