di Gabriele Rizza
Un recente studio della Cgia di Mestre ha evidenziato una costante negativa sempre più in ascesa: la sovraistruzione, ossia quando un lavoratore svolge una mansione inferiore alle competenze acquisite con il proprio titolo di studio. Ad oggi, i sovraistruiti in Italia sono quasi sei milioni di lavoratori, in gran parte della fascia più giovane della popolazione.
Le cause e le conseguenze di questo fenomeno sono molteplici, e testimoniano come lavoro ed economia siano strettamente interconnesse con la socialità, la politica e il costume. Sempre più sovraistruiti significa aziende sempre più in difficoltà nello specializzarsi, elemento di criticità per un paese ancora avanzato come l’Italia che rischia un ulteriore downgrade a livello globale; più sovraistruzione significa anche che l’istruzione universitaria e post-universitaria non intercettano le richieste o non stanno al passo con l’evoluzione del mondo del lavoro e delle tante imprese italiane che si sono iper-specializzate in settori scientifici e tecnologici o nel terziario avanzato. La politica anche qui c’entra e come: non è stata mai elaborata una strategia chiara che coinvolga il pubblico, il privato e l’istruzione con il fine di far incontrare l’offerta e la domanda. L’unica risposta è stata la riforma dei centri per l’impiego legata al reddito di cittadinanza.
Quel che invece la politica difficilmente riuscirebbe a risolvere con una riforma, sono gli effetti psicologici e sociali sull’individuo che lavora al di sotto delle sue capacità: scarso impegno, sfiducia e frustrazione, quest’ultima nuova malattia collettiva del nuovo millennio che ha preso il posto dell’invidia sociale. La frustrazione porta al risentimento, altrimenti perchè, stando all’attualità, un giovane giurista poco soddisfatto del suo lavoro ad ogni referendum costituzionale si scaglia contro il farmacista, l’imbianchino o l’architetto che sui social dice la sua sul quesito referendario?