Unus unico, Simon Berger, non somiglia a nessuno! La sua grande identità, fatta di mille sfaccettature e dalla sua innata abilità alla metamorfosi in specularità assoluta con la metafora, si conferma nella dialettica tra mobile e stabile, cioè tra ciò che si coglie alzando gli occhi al cielo, nella sua implacabile giostra dell’aria, che tutto accoglie nel vento, imponendo la dinamica della sua energia caotica e ciò che è ben poggiato con i piedi a terra e si atteggia a grazioso gingillo della storia dell’arte, oppure a grande mostro che attende il destino di tutti noi, con una grande imperiosità architettonica.
Berger è “ossessionato” dagli specchi disseminati in ogni momento della nostra vita, duplicazione e moltiplicazione delle icone e degli idoli, in un gioco allo scambio simbolico, che è centrale e periferico nella realtà, dell’alienazione, della distruzione che sembra inesorabile, nella divisione parcellizzata del lavoro, del tempo e dello spazio, con un incombere di frammenti, che accumulandosi perdono leggerezza e volatilità e diventano ritratto, del suo raffinato disegno, dialogante con un impossibile classicismo, di cui si avverte il fascino e la prepotenza, ma anche l’assoluta distanza da una realtà traballante ed incerta, in cui per ogni raffinatezza, per ogni preziosità, sono in agguato, enormi quantità di prodotti con data di scadenza, la cui campana a morto può suonare in qualsiasi momento. Berger con i suoi vetri frantumati, colossali e monumentali, ma al contempo leggeri e illusori, costruisce una messa in scena, che fa da punto di riferimento di tutto il complesso delle sue opere, in cui può essere compendiata una vita di lavoro intenso, a partire da una premessa di sottrazione di ricchezza alla pittura, alla scultura, all’architettura, per consegnarle ad un linguaggio volutamente indefinito, contaminatorio, posto sotto il segno dell’installazione, che è ambiguità, reversibilità, gestualità.
Il concetto di opera aperta, appartiene ad una elaborazione culturale che concepisce la creazione artistica, come un fenomeno capace di comprendere l’aspetto materiale e quello immateriale, in una realtà oggettuale che non fa riferimento alla bellezza, come misura e come ritmo, ma alla sublimità come sconfinamento nell’infinito, come coscienza della necessità dell’uno, ma della sua sincronica insufficienza, nei confronti del tempo, irrimediabile, catastrofico, per quanto non percepibile e sommamente invisibile e dello spazio, che comincia in qualsiasi punto e non finisce da nessuna parte. Sciagura che viene evitata dall’artista con il ricorso all’individualità, alla propria immagine, come negazione della negazione, all’autoritratto disegnato a martellate, ma sempre su fondo riflettente, rivoltando l’ipotesi narcisistica, dell’uno solo, senza speranza e senza attesa, nella possibilità che altri, gli altri possano entrare in quel contesto e generare la pluralità, la moltitudine, anche se in fin dei conti si tratta di un’illusione, che ricorda Nietzsche e la sua metafora dell’abisso, che a forza di essere guardato, poi è capace di guardare, di penetrare nei pensieri, nei sogni e forse anche nei corpi, impossessandosene inesorabilmente.
Amo il sogno che c’è dentro ogni sogno, specie quando questo crea lo sconcerto e rompe gli schemi, perché è proprio nell’anabasi dell’impossibile che si sveglia la fantasia, che non teme il labirinto, non teme il deserto, non teme il mare in tempesta, perché concepisce la vita come una grande sfida, dove non ci sono mai né sicurezze, né assicurazioni, nell’eterna contesa col caos, col disordine, con l’insicurezza: ma è il non luogo dove siamo noi. Berger ci offre una ricerca della differenza, che dà forza alla pratica dell’invenzione, dello svelamento, che è un racconto che scorre per frammentazione, nella consapevolezza, antropologica, viscerale, che così come tutto si può rompere, così tutti i frammenti si possono comporre a nuova unità.
Prof. Pasquale Lettieri
Critico d’arte