di Gabriele Rizza
Sabato 27 giugno, si è disputata la partita di calcio femminile della NWSL Challenge Cup tra il North Carolina Courage e il Portland Thorns FC. Il match non è stato reso memorabile dal risultato o dallo spettacolo sportivo offerto; a fare il giro del mondo è l’immagine catturata dai fotografi del portiere di riserva dei North Carolina Courage, Sam Leshnak, rimasta in piedi con la mano sul cuore a cantare l’inno nazionale americano anziché inginocchiarsi come le sue compagne di spogliatoio per sostenere il movimento Black Lives Matter.
Il gesto della calciatrice ha reso scalpore ovunque, beccandosi tanti complimenti e altrettanti insulti sul suo profilo Instagram. La novità non è certo il clamore, ma è la modalità ad incuriosire. Abbiamo assistito, fin dalla nascita della fotografia e della televisione, ad atti di protesta non conformi o perlomeno non consoni al contesto. Indimenticabili sono i pugni al cielo a supporto delle Pantere Nere degli atleti afroamericani Tommie Smith e John Carlos, durante le premiazioni delle Olimpiadi in Messico del ’68. Oggi, invece, a fare scalpore è non partecipare ad un gesto di protesta, ma fare quel che fa da sempre un atleta prima del match: cantare l’inno nazionale. Un rovescio della medaglia che la dice lunga sui segni del tempo, l’efficacia e la genuinità delle proteste simboliche offerte in mondovisione.
E la domanda diventa: quanto è diventato conforme il non conformismo? Dagli States,importiamo ogni genere di campagna culturale, simboli e gesti diventati virali grazie soprattutto alle star di Hollywood o dello sport, riprese poi dalle piccole stelle nostrane dello spettacolo, che dovrebbe così metterli in contatto con il popolino. Perché un tempo a guidare il pensiero comune erano gli intellettuali e i libri, adesso sono le star e le stories su Instagram. Si pensi, per esempio, al movimento Me Too; cause nobilissime, come quella dell’antirazzismo, ridotte però a spot e pubblicità personale di chi ha un minimo di notorietà e, quando il circuito mediatico e di network prende il sopravvento, cade il senso della lotta culturale, perdendo di vista la strada e le case, e abbraccia il salotto confortevole degli schermi. La ribellione si fa docile e una ribellione in questa direzione si chiama semplicemente moda; ad esempio, in casa nostra, è docile in Parlamento Laura Boldrini, inginocchiata davanti i fotografi contro il razzismo, in preda alla rivoluzione per inserire le quote rosa nelle task force del governo, ma mai ribelle per tutelare una ragazza madre disoccupata. La ribellione con gli spot è facile. La ribellione è moda che dura un attimo, come tutte le altre mode, mentre i disagi sociali e la mancanza di diritti invece restano molto più a lungo.
E così, la calciatrice Sam, nella noia della routine dello sportivo, ha reso non conforme il conformismo e forse, per gli americani, più bello l’inno nazionale.