di Gabriele Rizza
Immuni – l’app che ha il compito di aiutare ad arginare i contagi – è scaricabile da pochi giorni e ha già raggiunto il milione di download. Il successo è stato oscurato dalle polemiche scatenate dalla campagna promozionale dell’app. Ha fatto il giro del web l’immagine che vede – secondo alcuni – un quadretto familiare troppo tradizionalista, dove il papà lavora al computer e la mamma culla il bambino.
Le critiche non sono tardate ad arrivare, cavalcando un leitmotiv proseguito anche durante i mesi di lockdown. Come dimenticarsi della verve di Laura Boldrini quando reclamava rappresentanti del genere femminile nelle numerosissime task force convocate dal governo giallorosso. Vincendo la battaglia. E anche in questa occasione parlamentari e ministri non sono stati da meno. Contro il marketing dell’app immuni sono intervenuti, tra gli altri, Enrico Letta, Anna Paola Concia e Andrea Orlando, considerando sconcertante che “l’immagine della donna nel 2020 sia ancora legata a stereotipi logori e abusati”.
Di tutta questa vicenda, la certezza è una sola: il marketing dell’app è stato disastroso, banale e chissà quanto costoso. Del resto, non ci ricordiamo una sola campagna di marketing delle Istituzioni (Governo o Regioni) degne di memoria, in positivo.
Quello che invece sbagliano i soloni dei diritti civili, dell’antisessismo da salotto e delle quote rosa applicate anche ai condomini, è come al solito non guardare la realtà. Troppo prigionieri della retorica sessantottina del linguaggio come strumento di dominio e troppo concentrati sulla parità ai piani alti, dove chi ha la possibilità di accedervi, ha già in dote la possibilità economica di farlo, come nel caso delle boldriniane task force. C’è poco da girarci intorno: dove anche la mente umana ha un valore economico, è la quantità di denaro in tasca ad emancipare.
Se invece andiamo ai piani bassi, per strada, nelle case di periferia, in provincia, in un negozio al dettaglio o in un asilo nido, il femminismo è ancora lotta per la sopravvivenza più che un gioco linguistico. Licenziamenti se si resta incinta e di conseguenza stipendi più bassi, impossibilità di accesso al nido gratuito o a case popolari. Solo per dirne alcune. Prima delle quote rosa esiste la realtà e se si prende la realtà per buona, il femminismo e l’antisessismo diventano prima di tutto una battaglia per i diritti sociali. Non delle sole donne ma di una comunità o, in questo caso, di una coppia.
E poi, nel dualismo salotto/realtà, c’è quella famosa immagine incriminata, ora sostituita da un’altra che ha fatto felici tutti ma fatto cadere ancor di più nel ridicolo chi ha gestito tutto ciò. Sarà benedetto il giorno in cui sarà culturalmente e socialmente normale che sia il papà a passare più tempo con il bambino nei suoi primi anni di vita. E già succede. Ma perché succede e a chi? In molte famiglie a volte è solo la donna a lavorare perché l’uomo è disoccupato. E succede a chi ha redditi bassi, dove la donna svolge lavori più sottopagati e l’uomo ha da tempo perso il suo lavoro. Ed è la stessa cosa per i nuclei familiari dove tutti i membri della coppia sono occupati e la donna guadagna più dell’uomo: succede nella stragrande maggioranza dei casi ai più poveri.
E allora gioiamo pure per ritrovarci un’immagine dove l’uomo tiene in braccio il bimbo e la donna lavora. Ma finché nella realtà ci sarà miseria, potremmo esserne felici soltanto in salotto.