di Susanna Russo
Si è laureato con lode in Scienze Politiche ed ha studiato Chitarra Classica presso il Conservatorio Cimarosa di Avellino.
È un attore, cantante, drammaturgo e regista napoletano, cofondatore del gruppo I virtuosi di San Martino, che ha debuttato in teatro nel 1994 con Cosima e altre storie. Nel nome di Ciccio, Blu Carogna, La Repubblica di Salotto sono solo alcuni degli spettacoli di cui è autore ed interprete. Impegnato sul fronte della nuova drammaturgia, ha messo in scena Abjurate! Prove per un processo, Felice e Costanza, Catena. Già collaboratore del Corriere del Mezzogiorno e di Metrovie (Il Manifesto), ha pubblicato Medea Marturano e, con Gianluca Giannini e Nicola Russo, Dialoghi eretici. Ha vinto con I virtuosi di San Martino il Premio Piero Ciampi 2014 per la miglior cover di Ciampi.
Nel 2017, oltre ad aver scritto e messo in scena con la sua compagnia Totò che tragedia!, ha pubblicato il libro Il bar dell’opera, e ha recitato nel film L’equilibrio con la regia di Vincenzo Marra, per cui ha vinto diversi premi, tra cui uno in occasione del Bifest (Bari International Film Festival).
Tra i registi per cui ha lavorato vi sono Claudio Insegno, Enzo Moscato e Pierpaolo Sepe; il rapporto di collaborazione con quest’ultimo si è rinnovato recentemente con Spacciatore, sceneggiata che ha debuttato a Maggio presso il Tetro Mercadante di Napoli.
Ne Il bar dell’opera, libro che hai pubblicato nel 2017, racconti Napoli in tutte le sue realtà e sfaccettature. Quanto influiscono le tue origini sulla tua arte?
«Essere nato a Napoli, viverci, una città che è stata una delle principali capitali europee per secoli, che ha prodotto arte, cultura, filosofia, diritto, musica, teatro, architettura, ricchezza, ovviamente incide in qualsiasi pensiero, in qualsiasi azione, ancor prima che nella produzione artistica. Una Capitale fantasma tradotta affannosamente in una terrificante metropoli post-moderna non può che fornire spunti, rabbia, riflessione, poesia, ma soprattutto il senso del Tragico, che Napoli ha ereditato dalla Magna Grecia e ancora conserva.»
Sempre nel 2017 hai recitato nel film L’equilibrio. Com’è per un attore che ha sempre vissuto di teatro e spettacolo dal vivo, recitare per la telecamera?
«Recitare per il cinema mi ha entusiasmato. Sono stato fortunatissimo perché diretto da un bravissimo regista, Vincenzo Marra, che dirige gli attori con certosina caparbietà: mi sembrava di fare prove teatrali prima di ogni ciak. Amo poi quel film perché mi ha regalato la gioia di un paio di premi, di cui uno al prestigioso Bifest di Bari: essere premiati al proprio esordio cinematografico è stato molto divertente. Certo il teatro, quando è tale, cioè quando non è ridotto a “spettacolo”, quando svetta verso il rito, è tutt’altra faccenda.»
Sei la penna e la voce dei Virtuosi di San Martino. Quali erano le vostre urgenze artistiche quando avete iniziato, quasi 30 anni fa, e quali sono le vostre urgenze ora?
«Siamo nati quasi per gioco, era l’era dei Carmelo Bene, dei Leo De Berardinis, dunque occorreva cercare una via che contemplasse quelle straordinarie esperienze, ma che si ritagliasse una cifra autonoma. Dal punto di vista della forma scegliemmo subito di portare nei teatri cosiddetti di prosa, un teatro musicale sia di repertorio, ma pure originale, che tenesse in conto Brecht, Petrolini, Viviani, ma anche il Varietà, il Melodramma, il Melologo. Si trattava di sfondare il muro dei “generi”, riconducendo in scena, in chiave decostruzionista, il superamento delle “strutture”. Eravamo poi animati da un sacro furore anti-boghese, da una netta distanza nei confronti del mondo radical-chic, che prendeva ad affermarsi in quegli anni. Le nostre urgenze, oggi, credo siano le medesime.»
Da dove ha origine e come si sviluppa la ricerca che sta alla base del vostro Teatro?
«La complementarietà tra parola e musica, tra tempo arbitrario (cioè musicale) e significati e significanti è per noi da sempre una vera ossessione. Abbiamo prodotto in teatro tutto ciò che ci pareva essere l’esatto opposto del teatro del “repetita”, di quel teatro di prosa borghese e “trombonesco” che ha smarrito il rapporto con il pubblico da quando la figura del regista si è sovrapposta a quella del capocomico, a quella dell’attore, a quella del drammaturgo. Rapporto di empatia, di partecipazione, di immediatezza, tutto questo è stato sostituito da una convenzione, dal segno più feroce del conformismo. Dunque sia nell’uso della musica che nella possibilità di recuperare i testi scritti per il teatro alle loro origini tradizionali, alle maschere, alla poesia, ai versi (la totalità delle opere dei Virtuosi sono scritte in versi), abbiamo prodotto un teatro che proceda per montaggio e ritmo di matrice poetica. “Medea Marturano”, o il recentissimo “Totò che tragedia!” ne sono credo i due esempi più riusciti.»
Ti cito: “il teatro è il luogo dove ci si può esprimere attraverso tutti i linguaggi purché li si faccia esplodere e non implodere.” E ancora: “il virtuosismo, la tecnica attoriale, i rudimenti del mestiere sono ormai un ricordo, una specie di estate sfuggevole”. Esiste ancora un Teatro capace di esplodere, o siamo arrivati al suo “Inverno”?
«Il teatro dei Virtuosi esplode, quindi esiste un teatro di crisi, che esplode, a dispetto della crisi del teatro, frutto di perpetue implosioni. Riguardo all’ “inverno”, ebbene credo esso riguardi tutte le arti, riguarda la cultura, i rapporti interpersonali, il senso della comunità. Non esiste al momento una visione del mondo prossimo che non sia quella agghiacciante, distopica, terroristica, che è sotto i nostri occhi, questo eterno presente. Quello che qualcuno profetizzava come il Tramonto dell’Occidente pare sia qui, adesso. E ciò si riverbera negli spettacoli cialtroni, nei baracconi privi di senso … se tutti possono fare tutto allora nessuno può far nulla.»
Hai descritto i tentativi di comicità di oggi come semplice spiritosaggine. Ci racconti la differenza tra quest’ultima e l’autentica comicità?
«La comicità ha sempre un fondamento tragico. Pensiamo a Keaton, a Totò, pensiamo a Petrolini, a Valentin, pensiamo a Sordi, a Eduardo. La spiritosaggine è quella propugnata da tanta tv, laddove vengono messi in fila dei tipi da bar che sciorinano battutine di solito razziste, omofobe, anti-femminili, banali, in una parola: fasciste.»
Cos’hanno rappresentato per te, soprattutto dal punto di vista artistico e professionale, la pandemia e il conseguente lockdown?
«Grande preoccupazione, ovviamente, per lo stop dato alle attività. Mi è parso, per dirla con Beckett, un definitivo finale di partita. Sì, perché il teatro, per come è sempre stato inteso nei secoli, la scrittura, l’arte insomma, mi parevano già essere piombati in un terribile lockdown generale molti anni prima dell’arresto deciso dai nostri governanti. Riguardo alla pandemia in sé, grande senso di smarrimento poi, come quando ero ragazzino, e alla televisione annunciavano che c’era stata una bomba esplosa in una piazza con morti e feriti: si era già certi che i colpevoli l’avrebbero fatta franca.»