di Stefano Sannino
“In linea di principio, l’opera d’arte è sempre stata riproducibile. Una cosa fatta dagli uomini ha sempre potuto essere rifatta dagli uomini” – W. Benjamin
Mai come in questo momento storico, godere dell’arte è un problema pressante soprattutto dal punto di vista intellettuale: con la chiusura dei musei, dei teatri, dei cinema, si sono chiuse le porte dei templi dell’arte al grande pubblico, ormai privato della possibilità di godere del prodotto dell’ingegno umano.
Certamente, l’uomo ha però da sempre potuto riprodurre le opere del suo ingegno secondo tecniche declinate nelle diverse epoche storiche, rendendo fruibile a molti ciò che altrimenti sarebbe stato di pochi. Questa sorta di fruizione di massa dell’opera d’arte, accentuata dall’avvento della tecnologia, ha però inevitabilmente fatto smarrire ciò che lo studioso W. Benjamin definisce come “aura” dell’opera d’arte: il suo hic et nunc, la sua unicità ed esclusività. E sebbene da un lato questa perdita dell’autenticità, permette quotidianamente a migliaia di persone di rapportarsi con una determinata opera d’arte, dall’altro si è perso – mediante il medesimo procedimento – il contesto all’interno del quale la medesima opera assume un significato sacro.
Che si parli infatti di un soggetto religioso o meno, il discorso non cambia: qualsiasi opera d’arte, nella misura in cui diventa fruizione di molti, perde la sua unicità, la sua sacralità, il suo significato.
Da sempre, infatti, alcune opere d’arte sono esclusiva di gruppi ristretti delle società umane. Basti pensare, per esempio, ad una statua di una divinità egizia, posta nelle sale più interne e più segrete dei templi, accessibili solo ai sacerdoti iniziati al culto. Nel momento stesso in cui questa statua, viene riprodotta, ripresa, fotografata e poi mostrata al grande pubblico, perde la sua unicità, il suo mistero, la sua portata emotiva e spirituale. E questo, non vale solo per i soggetti sacri, ma anche per quelli “profani”.
Quello su cui siamo chiamati ad interrogarci, in un’epoca ed in un momento storico in cui la fruizione dell’arte può essere solamente tecnica e digitale, è se questo fruire delle riproduzioni possa avere senso. In poche parole, dobbiamo chiederci se le opere d’arte che possiamo ammirare al di fuori dei loro contesti originali, abbiano la stessa capacità di suscitare in noi osservatori le emozioni che normalmente susciterebbero. È forse questo il problema più grande nascosto dietro alla chiusura dei centri della cultura, i quali sebbene dispongano quasi tutti ormai di portali digitali gratuiti attraverso cui è possibile visitare le esposizioni, sono stati privati della loro intrinseca funzione di suscitare un’emozione, di sospendere quel confitto interiore tipicamente umano, per abbattere il quale tutta l’arte è stata creata e sviluppata.
Quel che è certo è che in tempi straordinari, si debbano adottare delle misure straordinarie momentanee davanti alle quali però, l’uomo mai deve dimenticare che esse sono momentanee, transeunti. Prima o poi, i musei e le mostre riapriranno i battenti e si potrà ritornare a visitare e ad ammirare l’opera d’arte originale che, sebbene non più esclusiva di pochi, rimane comunque in grado – solo ed esclusivamente dal vivo – di smuovere l’animo umano, verso emozioni più alte e pure, in una sorta di estasi ascetico-artistica.
Fino a quel momento però, l’arte rimarrà meramente tecnica e potremmo godere dei grandi capolavori umani solo da dietro uno schermo, continuando a sognare ed ammirare ciò che presto potremmo tornare ad osservare da vicino.