L’era del virtuale avvolge nelle sue spire ogni momento della nostra vita, che sia di veglia o sia di sogno, non lasciando fuori nulla, del reale e del’immaginario, trasformando tutto il codice in comunicazione, caricando di parole e di immagini, tutti gli aspetti della cultura materiale, che viene, così, scaricata della sua oggettività e pesantezza, cioè di tutta la sua fisica, per vedersi codificata di ogni virtù illusoria e desiderante, come se fosse una speciale metafisica della quotidianità e del senso comune.
Giampiero Malgioglio lavora su questa nuova mitologia che sta scendendo su di noi, che come tutto ha le sue polarità positive, perché stimola l’intelligenza e la conoscenza e le sue polarità negative, perché contemporaneamente spinge al conformismo e al consumismo, per cui si tratta di averne coscienza e dominarla, senza lasciarsi andare alla deriva dell’alienazione.
Certo, detta così la questione sembra semplice, comprensibile, ma nella sua metamorfica fenomenologia, si presenta con aspetti e forme ingannevoli, per cui bisogna imparare a stanarla, addomesticarla, impedire che diventi autoreferente.
In fondo, la pubblicità è l’aspetto determinante della società dello spettacolo, secondo cui tutto deve andare in onda, in audio video e del produttivismo consumistico, secondo cui bisogna accumulare tante cose e poi buttarle via, senza sosta, pena la crisi, per cui tutto si deve, sapere, infrangendo ogni intimità, ogni segretezza e ogni casa deve diventare casa di vetro, ogni sussurro deve essere gridato, ogni gioia deve essere incontenibile, ogni dolore deve essere condiviso.
L’artista Malgioglio ci dice che tutto deve essere impastato con tutto, senza concessione per zone franche dalla pubblicità che è disponibile a pagare essa ogni servizio, da quello telefonico a quello internet, pur di apparire, come il mago risolutore, il deus ex machina, dell’eterna giovinezza, della ricchezza, della gioia. La sua arte visiva, figlia sui generis delle belle arti del passato, ha imparato subito a confrontarsi con i codici e i messaggi dei nuovi media e dei nuovi social, come è avvenuto a partire già dalle avanguardie futuriste e più ancora da quelle dadaiste, innestando sull’iperrealismo, ante litteram, dell’avere per l’essere, le bandierine delle satire e del sarcasmo, a volte ricoperte di una bella funzione di seriosità sacralizzante. Non è un caso, se già nel 1921, Marcel Duchamp in piena campagna demistificante di ogni residuo ordine estetico, con Belle Haleine – Eau de Voilette, conferma la sofisticazione del percorso cominciato nel 1913 con Ruota di bicicletta, approfondito nel 1919 con Readymade infelice, riproduzione de La Gioconda, a cui ha aggiunto baffi e pizzo, in una scia creativa che ci arriva addosso, nella traiettoria espressiva di Malgioglio con l’invenzione di un grande punto interrogativo elaborato dall’artista, come per dire “ma l’opera c’è o non c’è?” e “noi ci siamo o non ci siamo?”.
A supportare la finzione, ambientata con un sapiente allestimento, allo Studio Alessandro Orlando di Pietrasanta, le opere di Giampiero Malgioglio scarnificano il dubbio amletico, come se fossero un reale più reale del reale, mentre è solo sintesi comunicativa, la stessa che ci porta a pubblicare foto su Instagram, balletti demenziali su Tic Toc, oppure a inviare emoticon che hanno sostituito le parole con una nuova semiotica, fatta di piccole palline gialle. Si tratta di gradi diversi del linguaggio, mentre, con quest’ultimi siamo quasi al grado zero del linguaggio, alla perdita del sé, con il maestro Malgioglio scaliamo una nuova vetta, una nuova montagna nella grande partita che vede contrapposti la simulazione alla dissimulazione, con raffinatezza e distinzione, proponendo una versione dell’arte, come se uscisse a vedere le stelle, dopo essere stata prigioniera della platonica caverna delle ombre, dove la finzione sembrava reale e la realtà sembrava finzione. Un modo di salvarsi dal puro concettualismo e dalla riduzione a merce.
Prof. Pasquale Lettieri
Critico d’arte