1. Quadro di riferimento
Da quando è apparso sulla terra, e a maggior ragione oggi in piena ubriacatura tecnocratica, l’essere umano è costretto a misurarsi con la solitudine e la vulnerabilità, entro i confini (pur necessari a concepire il senso del limite) della propria individualità separata.
Nasce da qui l’insopprimibile bisogno di socializzazione, che consente a chiunque di rafforzarsi relazionandosi agli altri, all’ambiente naturale e alle diverse stratificazioni/entificazioni delle comunità familiari e territoriali.
In tal modo l’uomo è in grado di sperimentare modelli e stili di vita sostenibili – a cominciare dai metodi di lavoro – idonei a garantire a se stesso e alla collettività le risorse materiali e spirituali necessarie a favorire la sopravvivenza e la crescita in contesti di sicurezza.
E’ comunque ovvio che le aggregazioni sociali e le diverse civiltà stanno in piedi fino a quando vengono rinsaldate dalla più diffusa pratica di una sana moralità, improntata anzitutto al valore della solidarietà politica, economica e sociale; fatto salvo nel contempo l’essenziale pieno responsabile rispetto delle regole del diritto, adottate dai poteri rappresentativi stimati all’altezza dei compiti di un governo mosso da forti ideali.
A tale riguardo, la nostra Costituzione repubblicana si ispira ai principi del liberalismo moderno, che ha tra i suoi capisaldi la nota dottrina del pensatore francese Montesquieu (1689-1755); secondo la quale le libertà democratiche sono anzitutto garantite contro il falso liberismo (faccio ciò che voglio!) dalla separazione dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario e dal loro reciproco equilibrio.
La funzione primaria di emanare leggi vincolanti per tutti è pertanto attribuita alla politica, deputata a governare e a indirizzare la vita della città (polis, in greco) e dei cittadini.
Tuttavia, da più parti si sostiene che ormai anche i sistemi di democrazia tendono a frantumarsi e a degenerare in quella che viene definita “democratura” (mix di democrazia e dittatura).
Questo perché il popolo (sovrano?), come e più di sempre manovrato e “sedotto” dal bla-bla-bla della falsa retorica del bene comune, continua a prestare in larga misura consenso a quei politici affaristi e rissosi, che riducono la politica a scienza delle convenienze di bottega, ossia al soldo del dominio tecno finanziario.
A sua volta, il potere esecutivo è attribuito, sia ai livelli centrali che periferici, a una pletora di pubbliche Amministrazioni, che si muovono come un corpaccione indolente e usano mettersi spesso burocraticamente di traverso nella gestione dei serviziconnessi ai diritti individuali e sociali legalmente riconosciuti. Dimenticando, tra l’altro che, al pari di ogni altro mestiere (dal latino ministerium), anche quello del Ministro dovrebbe essere inteso (e praticato) come servente.
2. Riforma della giustizia, cantiere sempre aperto
Il potere giudiziario – disponendo tra l’altro di pochi magistrati qualificati e di scarse risorse umane e strumentali – appare a sua volta sempre più in affanno nel servizio di interpretare e applicare con tempestività, correttezza e imparzialità, un mostruoso inestricabile grumo di leggi, leggine e regolamenti.
Un ginepraio che lascia pertanto ampi varchi al contenzioso e alla devianza criminale, con la conseguente diffusa convinzione che diritto e giustizia appartengano a pianeti inconciliabili tra loro; essendo per di più abitati da molta gente depressa che si è ormai separata da madre natura, dopo averla devastata e avviata alla distruzione.
Forse allora gli antichi romani erano più avveduti, almeno sul piano lessicale, quando indicavano ciò che noi chiamiamo genericamente “diritto” con il termine “ius”, che indubbiamente suona più in sintonia con l’ideale di “iustitia”.
Comunque, sull’esempio dei rissosi inconcludenti dibattiti televisivi, anche nei bar si incontrano persone che discettano, in modo approssimativo, di riforma della giustizia.
Ad essere pignoli, appare intanto pretesa alquanto bizzarra quella di voler riformare la giustizia, che è di per sé valore assoluto e intangibile; tant’è che non a caso la teologia cattolica la include tra le quattro virtù cardinali (cardine di tutte le altre) e tra gli attributi di Dio.
Pertanto, oggetto di assidua revisione sono piuttosto i complicati testi normativi e i codici organizzativi degli apparati giudiziari e di sicurezza pubblica e privata, i quali sono predisposti appunto come strumenti operativi funzionali alla realizzazione dei fini di giustizia.
Del resto, l’esigenza di continui aggiornamenti deriva dal fatto che, nel corso della storia, l’innato e immutabile sentimento di giustizia (attribuire a ciascuno il suo sul piano dell’uguaglianza, e via teorizzando) deve necessariamente calarsi nel vissuto dei diversi assetti etici e geopolitici, e dei relativi “impianti” culturali.
Questa premessa appare utile per potersi accostare, con cognizione di causa, al vasto e confuso coacervo di innovazioni da decenni apportate, e tuttora in fase di lavorazione, nel cantiere sempre aperto dei sistemi penali in particolare.
Un contesto quest’ultimo che, nel quadro della evoluzione del nostro ordinamento giuridico in direzione sostanzialmente “buonista”(ora poco condivisa), si va da qualche tempo orientando verso la cd. “giustizia riparativa”. La quale intende lasciarsi definitivamente alle spalle l’arcaica concezione che da sempre caratterizza la “giustizia retributiva”, intesa come risposta di tipo ragionieristico; una sorta di partita doppia tra Male provocato e Male restituito (vendetta senza perdono?), tra l’altro già evocata dai crudeli antichi motti “occhio per occhio, dente per dente”, “chi di spada ferisce, di spada perisce”.
Al contrario, la visione cd. “riparativa”, mirando a realizzare l’incontro conciliativo tra autore e vittima del reato, risulta più aderente al messaggio evangelico e in linea con la illuminata impostazione della nostra Costituzione. La quale, oltre a bandire le aberrazioni del fascismo, sancisce (art.27) il divieto della pena di morte e, più in generale, stabilisce che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”: cioè alla sua risocializzazione.
3. Dalla riforma Cartabia al decreto Caivano
I veloci cambiamenti dell’era del postumano sono ora accelerati dall’utilizzo massivo della Intelligenza artificiale generativa(IA), che qualcuno preferisce definire Intelligenza umana rafforzata (IUR); la quale è in ogni caso ancora controversa in quanto priva del necessario approccio alla regolazione globale degli algoritmi informativi.
Intanto, nel caos universale del nostro ordinamento penale, si segnala ora la Riforma conosciuta con il nome del già ministro di Giustizia Marta Cartabia (D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150).
Si tratta di provvedimento di ampia portata (ben 99 articoli), che comporta tra l’altro: l’ampliamento del numero dei reati procedibili a querela di parte, diverse misure volte a favorire la deflazione dell’insostenibile carico giudiziario quali la remissione della querela, le condotte riparatorie o risarcitorie, le pene sostitutive delle pene detentive brevi; e inoltre la velocizzazione dei tempi di indagine, la tutela della vittima e il ruolo della polizia giudiziaria, le disposizioni sul nuovo processo telematico, la disciplina organica delle notificazioni, ecc.
La puntuale applicazione di tante complesse novità sta tuttavia mettendo a dura prova la resa degli operatori giudiziari (giudici, avvocati, polizia giudiziaria, ecc.) e la stessa tenuta dell’intero sistema penale.
Perciò, allo scopo di apprestare “pezzi di ricambio” alla riforma Cartabia – in attesa della approvazione di altre riforme in itinere – è intervenuta la legge 24 maggio 2023, n. 60.
Una sorta di riforma della riforma, promossa dal neo ministro di Giustizia Carlo Nordio per dettare nuove e più efficaci “Norme in materia di procedibilità d’ufficio e arresto in flagranza” (norme la cui efficacia è ancora da provare, essendo in via di sperimentazione).
Da ultimo, con riserva di approfondimenti in altra sede, si segnala il Decreto legge 15 settembre 2023, n. 123 adottato dal Governo come strategia di “Contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile”.
Il provvedimento, intestato alla città di Caivano (NA) in risposta alla grave attuale emergenza sul fronte dell’ordine e della sicurezza pubblica, mostra il pugno duro nei confronti dei ragazzi ultraquattordicenni e dei rispettivi genitori. L’obiettivo dichiarato dovrebbe quindi consistere nel reprimere il fenomeno delle baby gang, nel complicato bilanciamento tra esigenza repressiva e necessità rieducativa.
Ma l’intero decreto, con l’inasprimento delle sanzioni sui minori, non è condiviso da chi sostiene che la delinquenza non si ferma per decreto, riempiendo il codice penale di nuove ipotesi di reato e minacciando “manette”. Per cui, piuttosto che affidarsi alla repressione fine a se stessa e non risolutiva, sarebbe tanto meglio investire sulla prevenzione, puntando su regole chiare, sull’impegno operativo e l’esempio virtuoso degli adulti, e in particolare sulle famiglie trasformate in agenzie educative; insomma sulla diffusa promozione civica e culturale.
Benito Melchionna
Procuratore Emerito della Repubblica