di Camillo Tarocci
C’è stato un momento, quando ancora sembrava possibile l’elezione di Pier Ferdinando Casini, in cui il ritorno della Democrazia Cristiana pareva cosa fatta. Clemente Mastella, ras della campagna quirinalizia scudocrociata, gongolava da mattina a sera in tv, un po’ opinionista un po’ kingmaker un po’ inviato del maratoneta Mentana. Veterani come Paolo Cirino Pomicino – passando in rassegna le elezioni passate – dicevano e non dicevano (ma soprattutto dicevano) che, signoramia, come li facevamo noi i presidenti della Repubblica, nessuno mai. E infatti la rielezione di Sergio Mattarella ha confermato una certezza che ha attraversato l’intera Seconda Repubblica e ora lambisce la Terza (ammesso sia mai partita), e che cioè i capi dello Stato, in Italia, o sono nativi primarepubblicani o semplicemente non sono.
Ma proprio la permanenza dell’attuale inquilino sul Colle più importante di Roma ha spento rapidamente gli entusiasmi. E infatti, a distanza di circa un mese, il revival Dc sembra già tornato ad essere un arnese del passato, buono per la prossima crisi politica o istituzionale e qualche talk. Ciò non significa, però, che si sia spenta anche la voglia di centro.
I movimenti, anzi, si sprecano. “Italia al Centro” si chiamerà, con scarsa fantasia, il soggetto che dovrebbe nascere dall’incontro di esperienze come quelle di Matteo Renzi (Italia Viva) e Giovanni Toti (Coraggio Italia, che è un po’ come dire Forza Italia, ma con meno convinzione). Il governatore ligure, un paio di giorni fa, ha ammesso che la formula è già stretta: allarghiamoci a Forza Italia e Azione, ha auspicato, e la leadership non è un problema, “non servono rockstar”. Problema “quid” risolto. Sarà, ma le ambizioni dell’ex direttore Mediaset si scontrano con la caparbietà di Silvio Berlusconi, deciso a riconquistare centralità (in tutti i sensi) nello schieramento che ha fondato, e con l’idiosincrasia di Carlo Calenda verso qualsiasi potenziale alleato.
L’ex ministro dello Sviluppo e candidato sindaco di Roma, nei giorni scorsi, è finito al centro delle cronache politiche. L’assemblea che lo ha incoronato segretario di Azione (forza che i sondaggi accreditano di un 4% circa dei consensi) è stata il palcoscenico di diversi leader, e in particolare del dem Enrico Letta. Calenda gli ha riconosciuto il ruolo di interlocutore privilegiato del suo movimento, ma nel farlo, più che mettere paletti, ne ha metaforicamente piantato uno (di frassino?) nel cuore di Giuseppe Conte. “O con noi o con i 5 Stelle”, l’aut aut. Apertura, piuttosto, a un fronte largo per una riedizione del governo Draghi anche eventualmente dopo il voto, con Pd e Azione, ma anche volendo Forza Italia e Lega, forse perfino Leu. Unici esclusi dal gran ballo di Palazzo Chigi, pentastellati appunto e Fratelli d’Italia.
Quello tratteggiato da Calenda, che dice di aspirare al 20% (spera, cioè, di replicare a livello nazionale l’exploit ottenuto alle Comunali nella Capitale) e sostiene di detestare l’etichetta di “moderato”, è uno scenario con molti estimatori, di questi tempi. Dario Franceschini, signore delle tessere nel Partito Democratico, e anche l’influente Goffredo Bettini, da un po’ di tempo hanno cominciato a parlare della possibilità di un dialogo con la Lega, purché il partito di Salvini sfoderi un aplomb centrista, moderato appunto. Si lascia intendere, cioè, che accantonate le passioni populiste e tenuti a debita distanza i sovranisti meloniani, all’ex Carroccio sarà data copia della chiave della stanza dei bottoni.
Uno schema già visto. Una dozzina di anni fa, Gianfranco Fini avrebbe dovuto divincolarsi dall’abbraccio di Silvio Berlusconi per diventare uno statista di levatura europea, poi fu la volta di Angelino Alfano, quindi di Giovanni Toti. Adesso tocca, alternativamente, a uno tra Berlusconi (che dovrebbe fare la maggioranza Ursula e mollare i sodali), Meloni (che organizza così bene Atreju e va d’accordo con Letta) e addirittura con Salvini (a patto che diventi giorgettiano, però). Morale: il centrosinistra sa che alle prossime elezioni politiche, tra esattamente un anno, non c’è campo largo che tenga contro un centrodestra unito. Quindi il divide et impera resta l’unica opzione possibile.
E non va in una direzione diversa nemmeno un altro progetto, che aspira a essere centrale senza essere centrista, quello cioè che La Stampa ha già ribattezzato “il partito di Sala”. Il sindaco di Milano, secondo la ricostruzione del quotidiano torinese, sarebbe a un passo dal lanciare un’opa su Europa Verde, per trasformare gli ambientalisti da partito storicamente bicolore (verdi fuori, rossi dentro) in qualcosa di più moderno ed europeo. L’idea è guardare all’esempio dei Grünen tedeschi, più attenti allo sviluppo sostenibile che alle campagne no-tutto, e capaci di coniugare ecologismo, diritti civili e libero mercato. Una sfida difficile, anche a giudicare dai possibili compagni di strada: l’amico Beppe Grillo, Mara Carfagna (riecco il tentativo di spaccare il centrodestra), la senatrice e attivista femminista Loredana De Petris (Leu). Abbastanza per far venire il mal di testa a qualunque benintenzionato: perché farseli piacere tutti no, non è proprio possibile.
In un caso e nell’altro – e anche nell’ipotesi, remota, che i due progetti possano diventare uno – sembra mancare qualcosa. Anzi, qualcuno: i cattolici. Ora, se è vero che l’epopea del cattolicesimo democratico italiano è ormai affidata ai libri di storia e che nemmeno Gianfranco Rotondi pensa più di rifondare la Dc (adesso pure lui guarda all’ecologia, con Verde è Popolare), è vero anche che declinare un centro politico escludendone del tutto il moderatismo cristiano sa tanto di esperimento sviluppato in laboratorio, e destinato a fallire rovinosamente.
I precendenti non mancano. Scelta Civica, il cartello nato per sostenere il premier uscente Mario Monti alle elezioni del 2013, non osava tanto: ai tecnocrati s’era affiancato qualche esponente della sinistra cattolica, dal fondatore di Sant’Egidio Riccardi al trentino Dellai. Andò come sappiamo: un terzo posto inutile e poi l‘oblio. Ancora peggio, in passato, andò a chi pensò di far nascere un Polo laico per stare al centro nonostante la Dc: Pli, Pri e radicali ci provarono alle Europee del 1989. La grande stampa era con loro, si parlò addirittura di una presidenza onoraria da affidare ad Indro Montanelli, bastiancontrario liberale e pochissimo cristiano. Finì com’era normale che finisse: la seriosa macchinina da guerra raggranellò il 4,4% ed elesse quattro-eurodeputati-quattro per il rotto della cuffia. Meglio non dimenticarlo.