Messico: un bambino di soli dieci mesi muore in ospedale a seguito di un’incidente stradale. Sembra una notizia come tante altre, se non ci fosse un particolare che ha scatenato proteste e rabbia a livello internazionale: i medici non hanno potuto salvarlo perché la madre, testimone di Geova, ha proibito loro di praticare una trasfusione di sangue. Per i testimoni di Geova, infatti, le trasfusioni sono vietate. Essi prendono alla lettera un brano biblico:
Ogni uomo, Israelita o straniero dimorante in mezzo a loro, che mangi di qualsiasi specie di sangue, contro di lui, che ha mangiato il sangue, io volgerò la faccia e lo eliminerò dal suo popolo. Poiché la vita della carne è nel sangue. Perciò vi ho concesso di porlo sull’altare in espiazione per le vostre vite; perché il sangue espia, in quanto è la vita. Perciò ho detto agli Israeliti: Nessuno tra voi mangerà il sangue, neppure lo straniero che soggiorna fra voi mangerà sangue. Se uno qualunque degli Israeliti o degli stranieri che soggiornano fra di loro prende alla caccia un animale o un uccello che si può mangiare, ne deve spargere il sangue e coprirlo di terra; perché la vita di ogni essere vivente è il suo sangue, in quanto sua vita; perciò ho ordinato agli Israeliti: Non mangerete sangue di alcuna specie di essere vivente, perché il sangue è la vita d’ogni carne; chiunque ne mangerà sarà eliminato. [Levitico 17, 10 – 14]
Poiché dunque nel sangue sta la vita, i testimoni di Geova non accettano la pratica della trasfusione per non mischiare la “vita” (si intenda per “vita”, il soffio vitale, l’anima) di una persona con quella di un’altra. Un’interpretazione letteraria piuttosto riduttiva e opinabile.
Questo caso pone alcuni quesiti essenziali che il nostro Paese sembra voler evitare nel modo più assoluto. Se ne parla solo in casi estremi che mettono in dubbio i principi etici fondamentali, casi come quello di Piergiorgio Welby, o quello di Eluana Englaro. Questi casi hanno posto una domanda essenziale: qual è il limite della scelta personale? Fin dove lo stato può intervenire nella morale e nell’etica? Ai tempi di Eluana Englaro molti chiesero l’introduzione del “testamento biologico”, uno strumento che permetterebbe alla persona di decidere il proprio destino in caso di stato di coma irreversibile. Il can can del caso Englaro fu proprio dettato dall’impossibilità, per la paziente, di esprimere la propria volontà. La famiglia chiedeva di porre fine a una vita in stato vegetativo che durava ormai da quai due decenni, mentre il mondo cattolico interveniva per impedirlo. Il testamento biologico servirebbe proprio a dirimere certe questioni. Se una persona non volesse vivere in stato vegetativo, potrebbe lasciar scritto di staccare la spina in caso di coma irreversibile. Tale strumento non piace però al mondo cattolico che pretende, come sempre, di imporre la propria morale anche a chi non la condivide.
Il caso messicano porge però un dubbio di maggior portata. Se infatti la scelta di un adulto è un atto di libertà che pone dubbi solo a chi di questa libertà è nemico, la scelta di una madre per il figlio dà parecchio da riflettere. Fino a che punto il figlio deve essere sotto la potestà dei genitori? Possono i genitori, per un motivo puramente religioso, condannare a morte un bambino di dieci mesi che non può minimamente esprimere la propria volontà? Qual è la priorità? La vita di un bambino indifeso o la “libertà di religione” dei genitori? Davvero possiamo permettere a una madre di lasciar morire suo figlio per un credo religioso qualunque? Pur da religioso quale sono (sono diacono ortodosso) credo che la religione, e la morale a essa legata, siano scelte personali che l’individuo fa. È diritto e dovere dei genitori insegnare la morale ai figli ed educarli secondo i propri principi, anche religiosi, ma davanti al rischio di vita la priorità non può che essere la salvaguardia della vita stessa. Un bambino non è un oggetto di proprietà della famiglia, ma una persona che gode di diritti propri, il primo dei quali è il diritto alla vita. Una volta maggiorenne potrà poi decidere per sé e rifiutare le trasfusioni, se questo sarà il suo sentire.
Il discorso su questi temi non è più procrastinabile e il silenzio della nostra classe politica, impegnata esclusivamente a preservare i privilegi propri e dei propri amici, è a dir poco assordante. Trovo inconcepibile che uno stato moderno non abbia ancora una legge chiara che permetta la scelta personale per quel che riguarda il fine vita. Anche in termini religiosi, del resto, il cattolicesimo (tanto romano quanto ortodosso) postula il libero arbitrio delle persone. Sta quindi all’individuo scegliere per sé e non a un’istituzione, sia essa lo stato o la chiesa. Personalmente, se fosse introdotto il testamento biologico, io sceglierei di rimanere in vita, coerentemente con quanto prescrive il mio credo. Ciò non dà però il diritto né a me né a nessun altro di imporre tale scelta a chicchessia. Sta ad ogni persona capace di intendere e volere decidere per sé.
Altro discorso è la scelta per chi è incapace di intendere e volere, sia per età (come il caso del bambino messicano), sia per problemi di incapacità mentale. La legge deve quindi essere fatta in modo da garantire il più possibile la vita della persona malata, pur evitando l’accanimento terapeutico. Un tema non facile e sicuramente controverso, che mette in discussione il diritto alla vita, alle cure e il diritto genitoriale e parentale. Questa difficoltà non giustifica però la totale mancanza di dibattito su questi temi, che vengono tenuti in disparte, nascosti, come se non esistessero, per venire alla ribalta solo in casi estremi come quelli citati. Certo, si potrebbe dire che oggi le priorità sono altre, che c’è la crisi da risolvere, l’economia da risollevare, l’emergenza immigrazione… Resta però il fatto che il parlamento lavora in commissioni e se ne potrebbe tranquillamente creare una sui temi etici senza fermare le discussioni e i lavori sui temi caldi del periodo. Quella delle priorità è solo una scusa, da sempre usata per non affrontare temi che non interessano o che danno fastidio a chi detiene il potere.
Credo però che una riflessione seria, civile e razionale sulla questione debba essere affrontata il prima possibile. Ne va della nostra civiltà stessa. Non si tratta infatti solo di casi estremi, ma anche di casi quotidiani che riguardano alcune religioni o etnie. La pratica dell’infibulazione, per esempio, deve essere combattuta in modo efficace. Non possiamo far finta che in Occidente non accadano cose simili. Come ha denunciato Ayaan Hirsi Alì nel suo libro “L’infedele”, l’infibulazione è praticata all’interno di certe comunità islamiche anche da noi. Le bambine vengono infibulate a casa, nell’indifferenza dei cittadini benpensanti. Così come non possiamo permettere che le donne islamiche indossino vestiti che coprono anche il viso come il burqa o l’hijab. E non per ragioni di sicurezza (comunque valide), ma perché le donne in Italia hanno pari diritti degli uomini (almeno per la legge), diritti ottenuti con tante battaglie di civiltà. Non possiamo permettere che ora, per motivi di falsa integrazione e di “libertà di religione” si permetta a degli uomini di imporre alle loro donne questi vestiti simbolo dell’oppressione dell’uomo sulla donna. Ancor più non si può far finta di nulla sulla barbara pratica dell’infibulazione. Questi temi sono molto delicati e non possiamo dilungarci nella trattazione. Basti qui esprimere la necessità politica di affrontare il tema del limite delle pratiche religiose e del diritto di ognuno alla scelta. Scelta che le istituzioni devono garantire anche aiutando le vittime di un sistema di imposizione come le donne islamiche, spesso obbligate alla sottomissione dalla mancanza di altre possibilità, o impedendo a genitori fanatici di mettere a rischio la vita dei figli per delle credenze religiose. E più la nostra società diventa plurale e multietnica, più la creazione di regole condivise e basilari diventa una necessità. Riuscirà la nostra classe politica a combinare qualcosa di buono o dovremo attendere le imposizioni europee?
Enrico Proserpio