di Martina Biassoni
“E chi può dire che non staremmo meglio se non fossimo civilizzati come siamo, se fossimo privi di gran parte delle nostre emozioni? Invece le abbiamo e di solito ne siamo abbastanza gelosi. Crediamo che esse siano importanti e che facciano di noi quel che siamo. Ci sentiamo evoluti rispetto a gente di altri tempi che non le aveva.”
Scriveva così George Gershwin su The Perennial Troubadour durante i mitici Roaring Twenties. La sua riflessione scaturisce da tutta una serie di discussioni che in quel periodo erano all’ordine del giorno fra gli intenditori: la possibilità di ammissione della musica jazz, e tutta la musica che prima di allora e dopo la fine della loro battaglia, nella categoria di arte.
tLa conclusione di Gershwin fu che arte è tutto ciò che provoca un’emozione nel fruitore e quindi la musica prima di tutte le altre arti appartenesse di diritto a questa grande famiglia perché comprensibile anche da persone poco istruite o completamente analfabete.
Perché la musica colpisce attraverso vie diverse da quella del senso della vista che richiede istruzione, abitudine alla lettura e allo scorgere dettagli invisibili ad ignoranti in materia di arti figurative; la musica colpisce direttamente il cuore e il cervello: il dolore, la gioia, quel senso di magia e di nostalgia che anche un primo ascolto possono farci provare, sono delle vere e proprie sensazioni che si sentono forti e chiare come pugni diretti alla bocca dello stomaco.
È logico che io mi trovi d’accordo col compositore americano pur non essendo “del mestiere”, io di musica me ne intendo quanto chiunque altro non abbia mai fatto studi approfonditi in materia, però ascolto spesso musica che mi fa provare delle emozioni ben definite. E di solito succede già dalle prime note.
Ascoltando una bella canzone, con la giusta melodia e le parole non buttate lí a caso che insieme suonano divinamente, ci si può figurare la storia che questa canzone racconta, vivere quello che i protagonisti, il cantante, cercano di fare vivere. E cosí vale anche per un pezzo strumentale, si riesce ad entrare nelle emozioni che il compositore provava al momento della stesura, a raccogliere tutti gli indizi che lancia nota dopo nota ed a ricostruire alla perfezione tutto ciò che ha portato all’opera finale.
Per questo mi chiedo se in un mondo come il nostro, pieno di corse alla prossima fermata, pieno di ingiustizie, cattiverie, prese in giro a chi si ferma ad ascoltare la musica che accompagna e si “auto-dona” la propria vita e ad assaporarne al massimo ogni sensazione ed emozione, in un mondo in cui tutti dobbiamo essere uguali all’altro, freddi ed asettici come sale d’ospedale, ce la meritiamo una musica diversa, regalataci da chi la scrive, da chi ancora prova gusto nel donare emozioni agli altri, nel mettersi a nudo e consegnare al mondo intero le parti più intime di se stesso?
Forse non ce la meritiamo così per come siamo, ma se ci impegniamo tutti a tornare un po’ febbrilmente pieni di emozioni e voglia di fermarci ad assaporare ogni aspetto della vita, nelle sue colorazioni e nelle sue infinite sfaccettature, allora sì che torneremo a meritarcela.