di Mario Alberto Marchi
Nel secondo trimestre del 2021, il Pil italiano è aumentato del 2,7% rispetto al trimestre precedente e del 17,3% in termini tendenziali. Il confronto è con il minimo toccato nel secondo trimestre del 2020, in corrispondenza del massimo della crisi sanitaria
A dirlo è l’Istat, che definisce l’incremento «eccezionalmente marcato» e precisa che “Il risultato ha beneficiato soprattutto di un forte recupero del settore dei servizi di mercato, il più penalizzato dalla crisi, di una crescita dell’industria e di una sostanziale stazionarietà dell’agricoltura”. Il dato complessivo è confortante, ma contiene un paio di dettagli, per così dire, scivolosi. Iniziamo da fatto che i servizi di mercato contemplano solo una parte del settore artigianale e della piccola impresa. Resta infatti fuori tutto ciò che riguarda la manifattura non industriale. E non è poco.
Se è vero che in alcune aree geografiche come l’Alto Adige anche questi settori stanno vivendo una ripresa, è anche vero che si tratta dei fenomeni più legati alla tradizione territoriale. Laddove invece le piccole realtà produttive fanno parte di sistemi produttivi, come quelli dei distretti, la crisi è stata fortissima e il recupero sarà necessariamente lento ed incerto.
I primi sei mesi dell’anno non sono ancora in grado di rovesciare le stime fatte a suo tempo dalla CGIA di Mestre, che un anno fa calcolava perdite di fatturato per almeno 7 miliardi, soprattutto a carico di costruzioni, manifattura propriamente detta (metalmeccanici, legno, chimica, plastica, tessile-abbigliamento, calzature) e servizi alla persona (acconciatori, estetiste, calzolai). Se poi si aggiunge profondo problema strutturale per il quale i titolari di imprese artigiane sopra i 70 anni sono cresciuti del 47%, mentre quella a conduzione giovanile sono diminuite del 42%, si capisce bene la gravità, anche in prospettiva.
L’altro dettaglio che deve destare preoccupazione sta in quella frase che parla di “sostanziale stazionarietà dell’agricoltura”. L’eleganza della forma non riesca a nascondere del tutto la realtà. Anche in questo caso è vero che il settore, poiché direttamente collegato ai consumi primari, ha resistito all’anno orribile del covid, ma se si parla di “stazionarietà” qualcosa non quadra.
Infatti una recente fotografia da parte di Coldiretti, descriveva una crescita record anche nell’export dell’agroalimentare, con il raggiungimento di un valore record di 46,1 miliardi con un aumento dell’1,7% rispetto all’anno precedente che ha consentito lo storico sorpasso sulle importazioni che sono invece scese a 43 miliardi, eppure alcuni problemi hanno fatto segnare un rallentamento: le difficoltà nel reperimento di manodopera straniera a causa delle restrizioni covid nei flussi e la sfortunata sequenza di siccità prima e maltempo poi, nell’arco dei passati due mesi.
Insomma, ci sono settori che hanno i numeri per uscire dal pantano della crisi, ma sono troppo fragili, altri che hanno bisogno di una profonda ristrutturazione, legata all’innovazione e alla formazione. Il risultato è che – in parte – quel Pil oltre le aspettative, sembra un gigante, ma ha ancora piedi d’argilla.