Recentemente ho letto il libro “Primitivi e Civilizzati” che riporta un dialogo radiofonico avvenuto nel 1959 tra l’antropologo Claude Lévi-Strauss e Georges Charbonnier.
Il libro affronta le differenze tra le società primitive e le società civilizzate, maggiormente complesse. Molto interessante il confronto tra lo storicismo
dei “civilizzati” e l’eternità dei “primitivi”. Mentre nelle società moderne ogni cosa si inserisce in un discorso storico, in una consapevolezza del mutamento sociale legato agli accadimenti, nelle società primitive si dà valore a quelle regole che sono sempre state così, che esistono dalla notte dei tempi. Nella concezione di tali società non c’è storia. I fatti determinanti, quelli che creano un precedente, un mutamento, vengono assorbiti dalla storia mitica, dal sistema tradizionale di miti e leggende su cui si basa il loro diritto.
Tema principale del discorso di Lévi-Strauss e di Charbonnier è l’espressione artistica. L’arte primitiva segue canoni precisi, all’interno dei quali si pone la produzione dell’artista e la sua sensibilità personale. Questi canoni costituiscono un linguaggio non parlato, condiviso da tutta la comunità, da tutta la società.
Nelle società civilizzate, invece, l’arte esce dal contesto sociale, diventa ristretta agli intellettuali e a coloro che possono pagarla. L’artista non ha più canoni rigidi, socialmente stabiliti, ma crea spesso un linguaggio suo personale che l’osservatore non riesce a decifrare. Questo vale in particolar modo per l’arte contemporanea.
Nel dialogo si arriva a ipotizzare la totale scomparsa dell’arte dalla società civilizzata in quanto essa diverrebbe inutile, sostituita da altri tipi di comunicazione e di linguaggio.
Su questo ultimo punto non sono d’accordo. Va detto che nel 1959 ancora non c’era il fenomeno dei graffiti. Le nostre città sono ormai ricoperte di scritte, firme, disegni vari. Si liquida il fenomeno, spesso, come semplice vandalismo, ma io sono convinto che ci sia molto di più da dire.
I graffittari sono i nuovi artisti primitivi delle nostre città. Mentre la nostra cosiddetta civiltà si distacca sempre più dalla sua tradizione, omologandosi e tranciando le radici culturali in nome del commercio, l’essere umano si riappropria della sua natura, del suo sentimento profondo di popolo, inventando nuove radici, nuovi codici tribali. Ecco che nascono quindi i Punk, gli Emo, i Gabber, i Truzzi ecc, ognuno con chiari simboli distintivi, con piercing sul naso o frangette strane, colori vivaci tra i capelli o vestiti di un certo tipo.
Queste espressioni non sono, nella loro essenza antropologica, differenti da quelle di molte tribù che ancora vivono in modo primitivo come le scarificazioni dei Nuer o dal disco nelle labbra delle donne Surma. Sono semplicemente simboli distintivi di un’identità tribale che la globalizzazione, alienante e omologante, cerca di distruggere.
Torniamo ai graffiti. Cos’hanno in comune con l’arte primitiva? Tanto per cominciare hanno un codice, un linguaggio condiviso. All’occhio profano i graffiti metropolitani sembrano tutti uguali. Il graffittaro, al contrario, distingue la mano dei diversi artisti. Come nell’arte primitiva, c’è un linguaggio condiviso su cui l’artista si basa per mandare il proprio messaggio di riappropriazione della città. La scritta sul muro,
per quanto possa sembrarci brutta, sciocca e vandalica, altro non è che un dire “mi riprendo il mio territorio”: è un urlo contro la tendenza distruttiva della modernità, una volontà di ritorno a una società a misura d’uomo. È proprio la firma sul muro ad essere antropologicamente più significativa, sicuramente più del graffito elaborato fatto magari da un artista famoso. L’arte primitiva non è “professionale”, ma è espressione del popolo a cui appartiene, è prodotta da tutti, è arte valida in sé anche se anonima.
Per questa natura primitiva il graffito viene osteggiato. È inutile dare degli spazi ai graffittari. Per quanto in buona fede lo si faccia è un’operazione simile al mettere gli indiani nelle riserve. Il graffittaro rivuole il suo territorio, afferma il diritto a vivere quegli spazi che il potere vorrebbe controllare col mercato e i soldi. Il graffittaro non si fa rinchiudere negli spazi, spesso scarsi e brutti, dove il potere vorrebbe limitarlo.
Anche il mercato non ama i graffiti. Certo, alcuni ne hanno fatti su tela e li hanno venduti, ma un graffito venduto è un graffito morto, è stato tolto dal suo contesto, da quello spazio che gli dà significato. Il graffito è gratuito per sua natura, è arte di tutti e per tutti e non può rientrare nel commercio. E il mercato
odia tutto ciò a cui non si può dare valore commerciale.
Sarebbe bello se le nostre autorità riflettessero su questi fenomeni e ne analizzassero le implicazioni sociali. Forse riuscirebbero a essere un po’ più vicine alla gente.
Attualmente le istituzioni non riflettono su questo, ne fanno solo un problema di “sicurezza” e arrestano i graffittari che vengono beccati sul fatto. È di pochi anni fa il processo a Daniele Nicolosi, in arte Bros, uno dei più famosi graffittari italiani. È evidente in questo caso lo scontro insanabile tra umana voglia di espressione, tra vitalità intellettuale e artistica e fredda legge di proprietà, di possesso, di mercato. Una cosa è certa, questi fenomeni non saranno fermati dalle sentenze dei tribunali, perché sono insiti nel carattere dell’essere umano. Sarebbe dunque meglio cercare nuove regole sociali che meglio si adattino a questo umano sentire.
A presto!
Enrico Proserpio