di Stefano Sannino
È degli ultimi giorni la notizia che sempre più isole dell’Islanda, e di altre nazioni dell’estremo Nord, stiano subendo un’impennata nel numero di residenti, in cerca -evidentemente- di uno stile di vita più sostenibile. Sebbene molti media nazionali stiano attribuendo questo aumento alle politiche di investimento pubblico adottato da molte nazioni ed anche a fattori culturali legati al mondo del cinema e della televisione, è ormai improbabile non ritenere responsabili anche alcuni fattori della psiche umana, che negli ultimi anni sono andati delineandosi sempre di più.
Il tema del ritiro dalla città alla campagna è però, tutt’altro che nuovo. Già da Teocrito, poeta siciliano vissuto tra 300 e 200 a.C, la letteratura e la poesia si sono occupate proprio di questo bisogno tipicamente umano che portava sempre più persone a preferire una vita di campagna rispetto alla più frenetica e movimentata vita di città: nasce così la bucolica.
Genere letterario particolarmente legato ad una visione idilliaca della natura, la bucolica fu poi ripresa in epoca più tarda dal ben più celebre Virgilio che, nelle sue Bucoliche appunto, raccontava non solo della tendenza al trasferimento nelle campagne, ma anche di tutta una serie di problemi ambientali legati alla civiltà romana, sopra tutti la deforestazione.
L’idea quindi che il mondo della campagna e della natura possa essere luogo di meditazione e di ritrovata felicità, a discapito di quanto vogliono farci credere le agenzie di informazione moderna, non dipende affatto dalla rivalutazione culturale o dalle politiche economiche: da sempre l’essere umano ha associato ad una vita di ritiro e di solitudine un’idea di felicità che, in città , non si potrebbe trovare.
Nello specifico, la critica che il genere letterario della bucolica muove alla cosiddetta vita cittadina è l’estremo attaccamento al progresso, l’abbandono dei ritmi naturali, l’allontanamento progressivo dalle sfere dell’emotività, dell’empatia e del sentimento. In breve, la vita in città è ritenuta responsabile dell’abbandono di quello stato di “umanità” che, paradossalmente, può invece essere riscoperto abitando in natura. È infatti proprio il contatto con la natura a permetterci di scoprirci umani.
Anche nel XXI secolo, proprio come all’epoca di Virgilio, sembra che questa tendenza ad abbandonare il chaos della città in favore di una vita più tranquilla in campagna non sia andata a scemare, ma anzi sia cresciuta sempre di più portando non solo ad un aumento nella popolazione dei luoghi più isolati della terra, ma anche alle possibilità di sviluppo economico legato a quegli stessi luoghi. Celebre, ad esempio, lo sviluppo della produzione di energia tramite impianti idroelettrici o geotermici.
Ciò a cui si assiste ultimamente in Islanda è dunque a ben vedere nient’altro che l’ennesima riscoperta di una vita tranquilla, che porta con sé una serie di valori etici e morali condivisi dalle nuove generazioni, sempre più interessate ai temi della responsabilità verso l’ambiente, della sostenibilità e della crescita emotiva e spirituale individuale.
Dopo più di due millenni dalla prima bucolica, l’uomo non ha ancora abbandonato il suo legame con la natura.