Intervista esclusiva al ministro degli Affari europei, che parla degli effetti dell’azione di governo sull’economia. E, tra ricordi d’infanzia e passioni culturali, repliche alle critiche da Bruxelles: “Se l’Unione europea continua a non mandare il messaggio che offre opportunità e non solo vincoli, tutti ne patiranno”.
13 NOVEMBRE 2018 – LUCA TELESE – PANORAMA.IT
L’Europa affronta oggi una delle tempeste più drammatiche della sua storia.
Nell’Ulisse James Joyce fa dire al suo protagonista, Stephen Dedalus: «La storia è un incubo da cui è difficile, se non impossibile, risvegliarsi».
Citazione meravigliosa, professor Savona. Ma anche venata di un terribile pessimismo.
Dice? Piuttosto piena di lucidità critica.
Cosa intende?
Ulisse per me è il mito più utile che si possa immaginare in un momento complesso come questo.
Perché?
In primo luogo perché è l’eroe dell’intelligenza: poi perché resiste al canto delle sirene, e come lei sa, mai come in queste ore il loro coro è stato così intenso e ingannevole.
E in secondo luogo?
Perché il viaggio di Ulisse è il viaggio del coraggio e della conoscenza.
Sta parlando del «folle volo» immaginato da Dante nell’Inferno.
A me che sono sardo piace pensare che quell’ultima meta di Ulisse, le colonne d’Ercole, ovvero la fine del mondo conosciuto dagli antichi, non sia Gibilterra, ma le bocche di Bonifacio, a nord dell’isola.
Un teatro di mare, come sanno i naviganti, burrascoso e impervio?
Non auguro a nessun velista di ritrovarsi da quelle parti sotto una maestralata. Ma proprio per questo io, conoscendo bene quei luoghi, posso dire di essere pronto a tutto.
Lei nella sua biografia dedica una bella pagina anche a Stephen Dedalus.
Stefano vuol dire «portatore della corona», ovvero colui che aspira a fissare un primato.
Un indice di curiosità intellettuale e di ambizione.
E pochi ricordano – invece – che secondo il mito, Dedalo fuggì da Creta proprio per rifugiarsi in Sardegna. La leggenda vuole che fu lui il primo costruttore dei nuraghe.
Insomma, la Sardegna come centro del mondo, il punto di scaturigine di ogni mito, e – anche – il cuore della sua vita.
Con la mia storia quale altro mito se non Ulisse potevo scegliere quale riferimento? Mio nonno era un maestro d’ascia, mio padre faceva l’ufficiale di Marina.
Ha le sue radici nel mare.
Mio padre era vissuto a lungo, per lavoro, nella base navale della Maddalena.
E lei?
Sono nato nel 1936 l’anno di pubblicazione della Teoria generale di Keynes, e anche quello del piano «Funk» nazista del III Reich. Ma nel 1943, da bambino, mi trovavo a Cagliari.
Sotto le bombe?
A sette anni, con la valigia in spalla, lasciai, la città dove ero nato. Pochi giorni dopo la casa dove ero vissuto fu bombardata e distrutta. L’avventura della mia vita, nel cuore della storia europea, è iniziata così.
Incontro Paolo Savona nei suoi uffici di Palazzo Chigi. Sono i giorni che seguono le polemiche sulla manovra, e quelle sul nubifragio apocalittico che ha sconvolto l’Italia. Mai come oggi le sue metafore e i suoi riferimenti culturali sono importanti per capire come vede il futuro e per comprendere come – secondo lui – l’Italia potrà uscire dalla tempesta.
Professor Savona, tutti gli italiani si chiedono se questa manovra aiuterà o meno l’Italia. Garantisce sugli effetti?
Che possa essere io a garantire gli effetti mi sembra esagerato.
Lei non è tipo da peccare di modestia.
Posso solo garantire che lo schema logico sottostante e le decisioni pratiche aiuteranno l’Italia.
Manovra «espansiva», si dice: ma ci sono abbastanza investimenti desinati allo sviluppo?
La manovra è espansiva perché se lo Stato spende il 2,4 per cento – circa 40 miliardi di euro – in più dello scorso anno, anche la domanda aggregata crescerà. Coloro i quali sostengono che la manovra non consentirà una crescita dello 0,5 per cento – poco più di 8 miliardi – nel 2019 per riportare il Pil reale ai livelli ancora insoddisfacenti del 2018 a causa dei mutamenti del clima internazionale, devono aver studiato su libri di economia rari, di cui è difficile procurarsi copia.
Ma lei avrebbe preferito più investimenti?
Sì. Sono d’accordo che non ci siano abbastanza investimenti e perciò ho sostenuto che questa deve essere la sfida politica che il Governo si è data.
Lei pensa già alla prossima manovra?
Se riusciamo a portare la crescita degli investimenti del’1 per cento nel prossimo anno e al 2 nel successivo biennio, si potrà crescere ancora di più, riassorbendo il costo delle spese sociali e accelerando la riduzione del rapporto debito pubblico/Pil.
Le tre misure più importanti della manovra sono il reddito, la cosiddetta quota cento e la flat tax. Mi può dire per ognuna che effetti prevede?
Per ognuna è difficile stabilirlo, ma nel complesso producono almeno, insisto su almeno, una crescita dello 0,5 per cento, se non proprio dell’1per cento.
Lei dunque è ottimista.
Oltre l’effetto crescita, ciò che è importante è l’aver inserito nella funzione di utilità della politica economica la lotta alla povertà, la crescita dell’occupazione giovanile e il sostegno alla piccola impresa, tutti temi molto sentiti dall’elettorato.
Sono provvedimenti acchiappa-consensi?
La politica economica è politica, governo della città-Paese.
La flat tax fino a 65 mila euro avrà effetti virtuosi?
Spero di sì, ma non effetti prevalentemente economici.
La preoccupa il Pil a crescita zero delle ultime rilevazioni?
I ministri, soprattutto se tecnici, non devono avere preoccupazioni, ma indicare soluzioni ai problemi.
Ovvero?
La legge di bilancio nasce anche dalla coscienza di questo andamento inaccettabile.
Questo effetto è da addebitare alle politiche di Paolo Gentiloni oppure lei pensa che sia un prodotto dei primi mesi di incertezza dall’insediamento alla manovra?
Come ho già detto, è il risultato del mutamento di clima degli andamenti geopolitici globali. Gli effetti delle politiche economiche, giuste o sbagliate, si presentano con ritardi temporali che in passato venivano stimati dai sei mesi all’anno e mezzo. Anche in questo caso chi sostiene la simultaneità degli effetti ha letto libri rari di economia o, più semplicemente, è mosso da pregiudizi, non da giudizi razionali.
È convinto che dopo la manovra il Pil ricomincerà a crescere?
Certo, ma con gli effetti temporali che le ho appena detto.
Il rapporto con l’Europa non è mai stato così teso.
Resterà difficile finché non vengono apportate le correzioni all’architettura istituzionale e alle politiche seguite, divenute di stampo conservatore, che ignorano la spinta al cambiamento proveniente dagli elettori. È pur vero che queste spinte sono di natura diversa – la Germania pensa diversamente dell’Italia e così via – ed è perciò che sostengo la necessità di una «europeizzazione» del cambiamento; ossia il bisogno di incanalare l’eterogeneità delle spinte entro una logica europea.
E come si può realizzare un obiettivo tanto ambizioso?
Ho chiesto proprio per questo la costituzione di un Gruppo di lavoro ad alto livello, istituto già presente in Europa, che apra una discussione sui temi che ci dividono. Mi viene detto che è infruttuoso e, secondo alcuni, anche pericoloso. Ma non viene riconosciuto che è necessario.
L’Italia sta perdendo o vincendo la sua guerra dello spread?
È il mercato che l’ha vinta, non accettando l’offensiva dei gruppi dirigenti italiani sconfitti o quelli europei contrari. D’altronde il «quantitative easing» di Mario Draghi ancora opera e qualcosa l’avrà pur fatto a fianco del mercato, che non vuole certo un’Italia destabilizzata.
Pensa che il risultato delle elezioni europee potrà aiutare l’Italia?
Se l’Unione europea continua a non mandare il messaggio che è un’organizzazione che offre opportunità, e non solo vincoli, tutti ne patiranno. L’Italia saprà comunque aiutarsi da sola, come è sempre avvenuto e sta avvenendo.
Secondo lei l’Italia è nel mirino dell’Europa?
L’idea che l’Italia sia nel mirino dell’Europa è un concetto che non esprime la sostanza di quanto sta accadendo da tempo, che è comunque un problema politico.
Pongo la domanda in altri termini: il governo di cui lei fa parte è in guerra con l’Europa?
La nostra concezione di un’Europa di pace e di benessere che mosse i Padri fondatori della Comunità, poi l’Unione, e trovò grande consenso presso la pubblica opinione non ha retto alla prova delle vicende che sono seguite alla firma del Trattato di Maastricht.
Detto così pare un sì.
Occorrono cambiamenti, non approfondimenti della visione che si è mostrata insufficiente a mantenere quel consenso. Da qui le reazioni, che i gruppi dirigenti europei non vogliono comprendere.
Le polemiche sul «piano B» hanno avuto un effetto sulla speculazione contro l’Italia?
Questo possono dirlo solo i già menzionati lettori di libri di economia e finanza di cui non si conosce il contenuto.
Lei usa il sarcasmo, ma questa risposta è importante.
Mi rattrista accertare che si vuole continuare ad andare in guerra senza scarpe adatte ai territori dove si combatte, o con armi insufficienti per affrontare le condizioni oggettive e le avversità che si incontrano.
Metafore belliche.
Guardi, i saggi pensano prima che fare, non dopo. Se un capo famiglia non pensa alle avversità, non fa un suo dovere. Se un imprenditore non prevede la possibilità di avversità per la sua impresa, non è all’altezza del suo compito. Perché un capo di Governo o un Governatore di banca centrale non dovrebbe farlo per il timore di suscitare scandalo o insinuazioni?
La Bce sembra oscillare nella sua linea di uscita dal «quantitative easing».
Cambiare politica monetaria quando la crescita reale decelera non è certamente scelta saggia.
L’uscita dal piano secondo lei può, e deve, essere rallentata?
La mia posizione è diversa: la funzione di prestatrice di ultima istanza della Bce deve essere flessibile e attuarsi nella misura necessaria e sui punti del mercato che ne abbisognano. Quella attuale è troppo rigida e condizionante.
Il venir meno della garanzia della Bce quanto incide sulla crescita dello spread che abbiamo subito?
Non sono in condizione di valutare questo impatto.
L’establishment italiano la considera un traditore per le sue posizioni eurocritiche?
Se così fosse, sarebbe parte della sua miopia, che si è mostrata inadatta ad affrontare i problemi geopolitici che il mondo impone di risolvere.
Il governo del cambiamento rischia di essere ucciso nella culla dalla procedura di infrazione e dal costo da pagare per gli interessi aggiuntivi?
Se una procedura di infrazione avesse questo potere sarebbe la testimonianza di ciò che il professor Giuseppe Guarino chiama «una creatura biogiuridica malforme», ossia una architettura istituzionale europea che non funziona e perciò va cambiata.
Ed è così?
Per il bene della democrazia europea spero che ciò non accada.
Come e quando è maturato il suo ripensamento eurocritico?
(Sospira) Non sono io ad avere avuto ripensamenti, ma la stampa che si definisce di informazione. Ho sempre dichiarato che l’Italia ha bisogno del mercato comune e dell’euro, ma sin dalle negoziazioni ho insistito con i miei maestri – Guido Carli e Carlo Azeglio Ciampi – che l’architettura era difettosa, come sette premi Nobel e molti economisti hanno sottolineato e continuano a sostenere.
Proviamo a sintetizzare i suoi dubbi.
A difetti sono stati aggiunti altri difetti, invece di rimuoverli. Dopo aver ceduto allo sconforto per l’inattività dei gruppi dirigenti italiani e miopia di quelli europei ed essermi ritirato a vita privata, mi è stata offerta l’occasione di cimentarmi in prima persona sul tema. Eccomi qui a chiarire per l’ennesima volta la mia posizione. Spero sia l’ultima.
(Articolo pubblicato nel n° 47 di Panorama in edicola dall’8 novembre 2018 con il titolo “L’Italia crescerà grazie a questa manovra”)