di Gabriele Rizza
Dall’oltreoceano, la questione della censura sbarca nello stivale nel giro di pochi giorni: dopo la sospensione e poi cancellazione del profilo Twitter del Presidente uscente degli USA, Donald Trump, il colosso social ha sospeso per 12 ore quello di una testata giornalistica italiana, Libero. I casi sono differenti, il giornale italiano, trascorsa la mezza giornata di “espulsione”, senza peraltro aver ricevuto alcuna spiegazione o risposta, ha visto riattivarsi il proprio profilo, a differenza del Tycoon che non potrà più cinguettare. I casi sono differenti e ugualmente gravi, e non perché si è dalla parte di Trump o di Libero, tantomeno per le idee e le ideologie, ma per l’abito che decide di indossare la nostra democrazia, che fino a prova contraria resta pluralista e libera.
Inutile negarlo, per quanto possiamo dichiararci tutti fan della realtà, della piazza e dell’autentico: i social determinano sempre più il successo o l’insuccesso pubblico (e psicologico nel caso di una persona comune) dei leader politici, i loro post e le loro dirette diventano poi notizie fresche per le agenzie di stampa, i telegiornali e notizie da elaborare per i giornali. Passano gli anni e le campagne elettorali puntano più ad accattivare chi scorre velocemente il dito sullo smartphone, che a chi guarda per ore la tv. I contenuti e le proposte politiche si adattano al linguaggio social: minimalista e veloce quanto persuasivo e al tempo stesso superficiale, povero di riflessione.
Piaccia o non piaccia, l’abito che indossiamo è questo, come un decennio fa la popolazione era incollata al televisore. Però la televisione, con tutti i suoi limiti, resta tutto sommato per regolamento e cultura sotto controllo della comunità nazionale e dell’autorità politica, si pensi all’Agcom. La comunicazione social ha invece fatto il grande salto globalista, i social network sono delle multinazionali private e gestite da privati senza alcun regolamento pubblico nazionale e internazionale. È come se il dibattito pubblico, il giro di opinioni e le voci in contrasto si consumassero dentro le mura domestiche di un cittadino privato che può decidere a proprio piacimento chi può dire e cosa si può dire. Facebook e Twitter, poi, valutano con criteri mondializzati le espressioni nocive e pericolose, non tengono conto della cultura linguistica ed espressiva di ogni singolo paese.
Trump non piace, ma ogni idea in democrazia ha il diritto di circolazione, anche quella che può sembrare più aberrante. Va punita l’istigazione alla violenza, non il pensiero. È il prezzo che la democrazia paga a sé stessa. Ci abbiamo messo secoli per capirlo e ora non si può lasciare la libertà di parola in Italia in mano a dei privati americani.