Leggere “Napoli immaginaria” di Elettra Caramiello, validissima studiosa di cinema e di «media», significa scorrere le pagine della storia del cinema a Napoli, e capire quanto Napoli sia la sublime, erede, nel suo grande contenitore indicibile ed ineffabile, delle misure della bellezza, della libertà espressionistica, dell’emozione, della gestualità, del nomadismo, della sperimentazione, della teatralità della scena, del segreto di un laboratorio sapienziale e facturale, del grande teatro del mondo e della sua immensa volta celeste, conturbante aura fantastica e cappa insostenibile. Una città che si configura come un grande contenitore, informe, elastico, pronto ad assumere la forma di tutto quello che contiene dentro, cambiando di continuo il suo modo di apparire, la sua transeunte morfologia, fatta di tutte le imperfezioni e le titubanze che vengono a scontrarsi, quando tutto è stasi e sembra movimento, quando tutto è movimento e sembra stasi. Valerio Caprara, nella sua introduzione, definisce “Napoli immaginaria” un’opera «densa e necessaria» ed in realtà le prospettive delineate dall’autrice sono così complesse da indurre il lettore a soffermarsi, a riflettere. Sono tanti anche i personaggi illustri che vi incontriamo: Gramsci, Croce, Pirandello, Benjamin e molti altri, né mancano i momenti in cui la Caramiello rilegge alcuni episodi della storia di Napoli in modo acuto ma anche molto personale (dalle quattro giornate alla speculazione edilizia). Elettra Caramiello traccia una mappatura straordinaria che parte dalla prima fase di sviluppo dell’attività cinematografica che trova in Napoli un territorio d’elezione, già dalla fine dell’Ottocento, per poi passare in filigrana tutti i volti della città rappresentati diverse fasi del cinema: da quella misera dei bassi, delle case dei pescatori, della vita degli scugnizzi, del dramma quotidiano di chi non ha niente, attraverso la commedia dell’arte, la sceneggiata di Mario Merola, l’humor pirandelliano di Nanni Loy, fino agli scenari degradati e violenti di Gomorra. Meritano una appendice non di maniera ma profondamente sentita e vissuta dall’autrice e dai noi lettori affascinati dalla ricerca di Elettra Caramiello i tanti nomi importanti e talvolta grandissimi, evocati in “Napoli immaginaria”, che a vario titolo hanno fatto la storia del cinema partenopeo e di quello italiano (ma si potrebbe dire di quello mondiale), anche perché ognuno di essi meriterebbe una trattazione a parte: Francesco Rosi, Vittorio De Sica, lo stesso Eduardo De Filippo, e poi Tornatore (per “Il camorrista”), la Wertmuller, Capuano, Piscicelli, Corsicato, Troisi, lo straordinario Martone, Garrone, Sorrentino. Artisti, di tutte le tendenze, di tutti gli stili, di tutte le ascendenze e discendenze, che sono i protagonisti della nostra scenografia di spettacolo e di virtualità, apparentemente senza autore, fatta di filamenti e trasgressioni, quanto da conversioni e annunci, azioni, senza separazioni, senza nettezze, in un grande territorio contaminato, mai neutro, che risente delle tracce delle grandi scuole del Novecento, che sono ancora qui, con noi, con i capelli un po’ imbiancati e i profili scavati dal tempo mentre su tutti incombono i segni di un oggi, barbarico, vitalistico, che non si concede distrazioni, bombardando, di segni, suoni, colori, fatti di tradizione e di tecnologia, facendo esperienza della contemporaneità, che non è una diacronia, ma un fatto mentale, onirico, passionale, alienante o anche salvifico. In “Napoli immaginaria” di Elettra Caramiello la persistenza della memoria storica, individuale e collettiva, per quanto opinabile, selettiva e spesso contraddittoria, fa da strato, da comune riferimento, che non è solo linguaggio tecnico, ma un modo di esprimersi, fatto di confluenze e di alchimie, di desideri e di paure, di sogni e di ossessioni, che ognuno si porta con sé, come bagaglio reale e virtuale, che mette a disposizione del nuovo e del diverso, combinandosi con le valenze disseminanti e affabulanti, della dimensione babelica del mondo.
Pasquale Lettieri