di Mario Alberto Marchi
Le multinazionali, quelle brutte bestiacce!
La narrazione popolare racconta di imprese gigantesche, dedite agli investimenti selvaggi e ai disinvestimenti senza scrupoli. Il peccato originale sarebbe fin troppo evidente: la mancanza di un legame con il territorio, considerato solo per convenienze di mercato e quindi la propensione a massimizzare i profitti, minimizzando le spese. Insomma il profilo esemplare dello sfruttatore. Eppure delle famigerate multinazionali abbiamo un immenso bisogno, per la loro capacità di spesa che comprende numeri importanti di offerta lavoro e perchè costituiscono un canale aperto vero i mercati esteri. Del resto, quando un’impresa nazionale non regge il mercato, ma comunque afferma la qualità del suo prodotto, ecco che arriva – non a caso – la multinazionale disposta a rilevare la produzione.
Certo, nei decenni, si è assistito anche a scorribande e fughe, lasciando sul campo lavoratori e intere città che da stabilimenti improvvisamente considerati poco utili, facevano dipendere la sopravvivenza del loro tessuto sociale. Ecco quindi che si rende indispensabile un atteggiamento di equilibrio, che riconosca l’indispensabilità delle imprese multinazionali, ma ne mitighi la spavalderia. A questo dovrebbe servire il cosiddetto “Decreto delocalizzazioni” che gira tra li vari ministeri interessati, a dire il vero con una certa lentezza.
Innanzi tutto vediamo di che si dovrebbe trattare. Una serie di norma che agevolino gli investimenti, ponendo però dei precisi vincoli che impediscano soprattutto di veder stabilimenti chiusi dalla sera alla mattina e lavoratori fuori dai cancelli. Dovrebbe prevedere almeno sei mesi di preavviso al governo e alle istituzioni locali per il progetto di chiusura della fabbrica, poi la figura di un advisor che farà da mediatore fra l’azienda e le istituzioni e dovrà preparare un piano sulla salvaguardia dell’occupazione, la reindustrializzazione e l’identificazione di un potenziale acquirente. Per le società che violassero gli accordi, pare sia prevista una sanzione del 2% sull’ultimo fatturato per le aziende che hanno beneficiato di contributi pubblici negli anni più recenti; verrebbero inserite in una “blacklist” con l’esclusione per tre anni da ammortizzatori sociali e incentivi pubblici.
Urgono due osservazioni. Innanzi tutto è lecito chiedersi perché ci si metta così tanto a varare un decreto così urgente e incisivo. E qui la risposta è tutta politica, con un’altalena tra tensioni pseudosocialiste e sedicenti liberali che contraddistinguono questa maggioranza di governo. C’è poi da chiedersi, un poco più a monte, se si sia pensato anche a rimuovere gli ostacoli burocratici, strutturali e sindacali, che pesano già tanto sulle nostre imprese e a maggior ragione possono indurre una multinazionale ad abbandonare il campo, sul quale – magari – si è ritrovata a lasciare fior di investimenti.