di Alessandro Giugni
Nel XVII secolo gli Stati europei iniziarono ad affrontare il problema dell’internamento di quella pluralità di persone dapprima rifiutate dalla società, a causa della loro condizione di malati mentali, e ora divenute oggetto di studio a seguito della pubblicazione del Medizinische praxis di Felix Plater, opera che per la prima volta mise in discussione il preconcetto medievale secondo il quale il malato mentale altro non era se non un soggetto posseduto dal demonio (tale preconcetto fu definitivamente superato durante l’Illuminismo).
Si dovrà attendere il XX secolo affinché in Italia vengano regolamentati dalla legge dello Stato gli istituti di cura per malati mentali, definiti, per la prima volta in via ufficiale dalla Legge 36/1904, “manicomi”. Dalla lettura degli 11 articoli del testo di legge appare, però, evidente come lo scopo principale dei neonati istituti manicomiali non fosse la cura, se non addirittura il recupero, dei malati, bensì la repressione e l’emarginazione di persone considerate socialmente pericolose (al tempo, infatti, la malattia mentale era considerata strettamente connessa alla pericolosità sociale). Per oltre 60 anni da questi luoghi non trapelarono che immagini di dormitori con letti rifatti alla perfezione e di infermiere in divisa dal sorriso amorevole pronte ad accogliere i pazienti. Questa situazione, che pareva immutabile, venne stravolta in soli 10 anni: un cambiamento repentino innescato dal potere comunicativo di fotografie che hanno fatto la storia.
Nel 1968 Carla Cerati venne incaricata da L’Espresso di ritrarre Franco Basaglia, divenuto pochi anni prima direttore dell’ospedale psichiatrico di Gorizia e pioniere nella sperimentazione di un metodo di cura anti-istituzionale dei malati, migliorandone le condizioni di vita tramite l’eliminazione di molte delle costrizioni alle quali erano sottoposti. La Cerati chiese a Gianni Berengo Gardin di accompagnarla. I manicomi di Gorizia, Colorno, Ferrara, Firenze, l’Isola di San Clemente e Parma divengono teatri di un reportage agghiacciante, pubblicato nel 1969 nel libro Morire di classe.
Le fotografie di Berengo Gardin restituiscono allo spettatore una realtà ben diversa da quella fino a quel momento conosciuta. Sono chiaramente percepibili la solitudine, la sofferenza, lo stato di alienazione e di abbandono dei malati, uomini e donne, per anni reclusi in quei luoghi di sofferenza, ridotti a veri e propri fantasmi viventi dei quali nessuno aveva, o, forse, sarebbe meglio dire voleva avere, memoria. Si passa dall’immagine di apparente felicità e spensieratezza del giocatore di pallamano, contrapposta al sonno del suo compagno di prigionia, a quella raffigurante tre donne ridotte a stracci, come quelli da loro indossati.
L’impatto di queste fotografie fu devastante e la rinnovata coscienza della condizione dei pazienti psichiatrici portò il Parlamento ad approvare la Legge 180/1978, nota come “Legge Basaglia”, che dispose la chiusura dei manicomi. Un primo, chiaro, esempio del potere della fotografia di determinare radicali cambiamenti della società.
Bravo Alessandro!