di Livia Caliopi Biro
Da più di un anno dall’inizio della pandemia, le ripercussioni economiche del Covid a livello globale sono catastrofiche. I lavoratori tessili che cuciono i nostri vestiti sono tra i più colpiti, molti di loro in paesi quali il Bangladesh, Cambogia, Sri Lanka ed Etiopia, subiscono cancellazioni di ordini, licenziamenti di massa e chiusure delle fabbriche in maniera repentina, senza nessuna tutela sindacale o statale, diventa quindi poi impossibile permettersi beni di prima necessità come il cibo, l’affitto o cure mediche.
Un report pubblicato dal Worker Rights Consortium ad aprile 2021 rivela che, in totale violazione della legge e dei diritti del lavoro, più di 10 mila persone non stanno ricevendo i pagamenti del trattamento di fine rapporto, dell’indennità mensile di disoccupazione e dei compensi loro spettanti.
La pandemia, e ora la seconda ondata di contagi che sta travolgendo i paesi dell’Asia meridionale, amplifica problemi che in realtà esistono da tempo nel retroscena del mondo della moda, ma di cui si parla sempre troppo poco. Competitività spietata nei costi di produzione e il salario minimo imposto dai governi, una cifra che tendenzialmente non equivale al salario di sussistenza, risultano in forme di sfruttamento e schiavitù moderna.
Ogni individuo ha diritto a un tenore di vita sufficiente dignitoso per garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al vestiario, all’abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali necessari. Un’occupazione tutelata, da diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia o in altro caso di perdita di mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà, come riporta la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, art. 25.1.
Sempre più consumatori stanno partecipando ad una campagna globale (#PayUp campaign) che porta alla luce i nomi di brand che non stanno pagando i propri fornitori. Con la crescente visibilità di iniziative come queste e un aumento dell’attenzione da parte del pubblico, le aziende cominciano ad assumersi responsabilità e ad agire diversamente. Resta da vedere se i governi e i brand che si sono arricchiti grazie ai bassi costi di produzione prenderanno provvedimenti per terminare lo sfruttamento del lavoro.
Una quotidianità definita da cambiamenti e incertezze porta con se anche la responsabilità e opportunità per l’industria della moda di mettere al primo posto i diritti dei lavoratori, dalle filiere fino al retail, e cambiare un sistema che ad oggi è danneggiato e insostenibile.