di Gabriele Rizza
Mario Draghi rischia di diventare il nuovo Presidente del consiglio dei ministri. Manca poco, manca solo l’ennesima formalità della consultazione sulla piattaforma Rousseau, perché nonostante la metamorfosi al governo, per i Cinque Stelle uno vale ancora uno. È sempre più beffardo il destino per i pentastellati: dopo una lotta alla BCE e a Draghi durata tutta la metà del decennio, sosterranno l’ex nemico al governo, magari insieme all’altro nemico storico e giurato, Silvio Berlusconi. E poiché la politica quanto a ritorni non ha nulla da invidiare all’amore, non è escluso il coinvolgimento della Lega di Matteo Salvini.
Tutto in nome di Draghi ma non solo per Draghi. Nel secolo in cui il baricentro politico si sposta da Roma a Bruxelles e il bisogno di stabilità conferisce per naturale conseguenza potere e carisma ai poteri più stabili e riconoscibili come il Presidente della Repubblica e l’esecutivo, la conformazione del Parlamento italiano e soprattutto la modalità di elezione dei suoi componenti, rende ancora più periferico il ruolo dei partiti e quindi della rappresentanza popolare. Diventa quindi solo una conseguenza che le forze politiche in Parlamento, non in grado di esprimere una maggioranza coesa e coerente nata con il voto, si affidino ad un terzo autorevole e con appeal internazionale come nel caso di Draghi. Perché gli altri leader europei, la burocrazia dell’UE e la finanza non aspettano la risoluzione delle beghe interne, le liti tra Conte e Renzi, tra Salvini e Di Maio e le liti su a chi dare qualche centesimo del Recovery Fund per premiare le categorie fedeli alle elezioni. Del resto, era già successo con Conte, ma in quel caso l’asse della scelta del premier era in chiave sovranista e non internazionale, e non dimentichiamo che se fosse naufragata l’alleanza gialloverde, il Colle era pronto a chiamare Cottarelli.
La novità di Mario Draghi è che rappresenta un upgrade curriculare, di relazioni internazionali e autorevolezza, è il numero uno tra i tecnici, per di più abituato a navigare nelle stanze del potere, è colui per il quale ogni leader politico può abbandonare per un momento le tesi più sovraniste: sta cedendo Salvini, cederanno i Cinque Stelle, forse non la Meloni, costretta a inseguire la coerenza politica per crescere nei sondaggi.
È così il numero uno da avere anche un alto gradimento popolare. In questo senso rappresenta la consacrazione di un cambiamento culturale: non si valuta più il primo ministro per la sua militanza e carriera nata e cresciuta dentro una sezione di partito, ma per il curriculum quanto più adiacente alla burocrazia legata alla politica ma fuori dalla politica. È la consacrazione del colloquio lavorativo a danni del tradizionale suffragio universale.