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venerdì, 15 Novembre, 2024

MARIA BARBUTO (psicoanalista): “NON SI POSSONO NON CONSIDERARE I DANNI PSICHICI CHE DERIVANO DA UN CAMBIAMENTO COSÌ RADICALE E TRAUMATICO”

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di Susanna Russo

Il dipartimento di Scienze Biomediche della Humanitas University ha svolto uno studio sull’impatto che la pandemia sta avendo e avrà sulla sfera psicologica ed emozionale.
Ecco alcuni dati: il 21% della popolazione ha difficoltà nei rapporti col partner, il 13% nei rapporti con i figli, il 50% riscontra un affaticamento durante lo svolgimento dell’attività lavorativa, il 70% degli studenti soffre di cali dell’attenzione nello studio.
In molti hanno iniziato a fare uso di ansiolitici/ sonniferi e anti depressivi, frequenti gli attacchi di panico.
Il Governo aveva ipotizzato un Bonus Psicologico, che i pazienti avrebbero potuto utilizzare per vedersi garantito il diritto di curare la loro salute mentale senza che questo avesse un impatto troppo gravoso sulle loro
economie già instabili. In questi ultimi giorni si è saputo che questa possibilità è venuta a meno.

Abbiamo incontrato la Dott.sa Maria Barbuto, psicoanalista a Milano. Collabora con Jonas, Centro specializzato nella cura dei nuovi sintomi, e insegna presso l’Irpa, Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata.


Quali sono le conseguenze più frequenti e preoccupanti a livello psicologico?

«A fronte dei danni causati dalla pandemia, una delle conseguenze su cui varrebbe la pena soffermarsi è il fatto che si stia sviluppando una mancanza di prospettiva chiara sul futuro e sulla qualità della vita. Tutto appare avvolto dal timore di un’imminente e continua catastrofe. Per coltivare il senso vitale dell’esistenza, gli esseri umani hanno bisogno di sviluppare fiducia verso il loro futuro. Quello che accade invece è che, oltre ai danni reali causati dalla situazione pandemica, non possiamo non accennare anche al carico di angoscia che deriva dal tam tam continuo dei bollettini sui morti e sui contagi. Si tratta di un’informazione utile ma che, se non gestita coerentemente, può produrre nella popolazione delle forme di angoscia che si manifestano attraverso dei sintomi precisi, tra cui l’ansia e la depressione. Per dirla in altri termini, è come se tra Eros e Thanatos, cioè tra la pulsione di vita e la pulsione di morte, Thanatos avesse la voce più grossa, col risultato che la finestra da dove guardiamo il mondo venga contaminata da un sentimento di spegnimento della vita, cioè da una vita che assume una dimensione clautrofilica, fobica, di chiusura dell’esistenza.»

 

Quali sono le categorie più a rischio?

«Occorre riflettere con molta più attenzione all’impatto che tutto questo può avere sulla popolazione dei più giovani, i quali stanno già subendo, da più di due anni, una significativa restrizione della loro vita sociale e relazionale. Ma pensiamo anche ai più piccoli che sviluppano, come spesso riferiscono i genitori, angosce legate alla paura di morire, incubi ed insonnia. Il Covid ha rappresentato per tutte le famiglie un rischio reale, molti hanno perso persone care, nonni, parenti, insomma figure di riferimento. Bisognerebbe chiedersi quale sia lo sguardo con cui i bambini possono guardare il mondo in questo momento ed impegnarsi a ridare senso al loro futuro.»


In percentuale, qual è la fetta di popolazione che presenta queste patologie, o comunque riscontra
queste problematiche?

«Dipende dal tipo di disagio. In generale le statistiche dicono che una persona su tre risponda con un disagio che può riguardare piani diversi. Nella popolazione adulta si riscontrano molte difficoltà a livello della relazione col partner o nelle dinamiche lavorative, ma anche problemi legati all’ansia e disturbi del sonno.
Sottolineo anche l’emergere di un senso di disorientamento rispetto alla vita in generale, come se ci fosse la percezione di vivere in un tempo “sospeso”, dove manca una bussola che orienti la vita stessa. Nei più giovani si presentano, oltre ai disturbi d’ansia, la tendenza a rinchiudersi tra le mura domestiche, a
sviluppare dipendenze patologiche, ludopatie virtuali, o a sentire un forte senso di solitudine.
Penso che si sia avuta poca attenzione alla gestione delle loro risorse psicologiche di fronte a un trauma cha ha cambiato la vita di tutti. Ci si è soffermati quasi esclusivamente sull’impatto legato alla salute del corpo, naturalmente importante, ma non si possono non considerare i danni psichici che derivano da un cambiamento così radicale e traumatico della qualità della vita.»


Quando è presumibile si vedranno tutte le reali conseguenze psicologiche?

«Si vedono già. Si vedono a partire dalle richieste sempre più numerose che fanno anche i più giovani. Basta vedere l’incremento delle richieste negli sportelli di ascolto universitari. Ma altri disturbi si potranno sviluppare nel tempo e non sappiamo ancora quali forme potranno assumere, sappiamo che sicuramente ci sarà un impatto importante sulla salute mentale, col rischio di sviluppare sintomi cronici e persistenti.»


Come sta cambiando la natura dei rapporti sociali? Come questo incide sulle nostre vite?

«La risposta al disagio è sempre soggettiva. Per fare un esempio, potremmo dire che, di fronte a una carestia di cibo, un soggetto ha la possibilità di rispondere incrementando l’impulso di soddisfare la sua fame o, al contrario, rinunciando, debilitando la sua capacità di reazione, chiudendo la bocca e lasciandosi morire. Da un lato un atteggiamento compulsivo e dall’altro uno malinconico, di ripiegamento su se stessi. Quindi dalla maniacalità alla chiusura patologica si tratta di due risposte, ugualmente possibili, che rappresentano due facce della stessa medaglia come risposta alla medesima crisi.»

 

Si è parlato di in Bonus Psicologico, che alla fine però non ha visto attuazione; com’è possibile che ci sia una così scarsa attenzione a questo tema? Di cosa dobbiamo preoccuparci per il nostro futuro?

«Credo che ciò di cui ci si debba preoccupare è proprio la scarsa attenzione all’essere umano preso nella sua globalità, e non solo come un oggetto della scienza. Essere ridotti a oggetti della scienza, cioè a un numero statistico o alla vita semplicemente biologica, non dice niente di ciò che per un soggetto significhi trovarsi di fronte alla gestione di un trauma di così grande portata per l’intero pianeta. Non occuparsi, silenziare o minimizzare quello che accade alla salute mentale, in conseguenza al Covid, dice quanto sia poco considerata la qualità della vita anche in un Paese moderno come il nostro. Eppure sappiamo tutti che esistono delle risposte molto forti ad eventi come questi, si tratta dei disturbi post traumatici da stress (ansia, depressione, problemi di insonnia, panico etc.) ma, più in generale, il rischio di inaridire la propria vita psichica produce chiusura, atteggiamenti fobici, tristezza esistenziale.»


Parliamo anche delle patologie psicologiche derivanti dallo stesso virus: cosa si intende esattamente per
long Covid? Ci dobbiamo preoccupare anche per questo risvolto?

«Il long Covid riguarda tutte quelle ripercussioni del Covid che si fanno sentire nel tempo, debilitando non solo l’organismo ma anche la psiche. Come se questo virus fosse capace di lasciare la traccia del suo passaggio, una specie di cicatrice. Per parlare dei disturbi più comuni, alcuni studi dicono che più della metà dei giovani adulti fino alla fascia dei 30 anni mostra sintomi di long Covid come: perdita di olfatto e gusto, affaticamento, respiro affannoso, difficoltà di concentrazione e di memoria. Quello che colpisce è proprio il disturbo cognitivo, cioè la difficoltà di memoria e di concentrazione in una popolazione giovane e nel pieno della sua vita formativa scolastica e culturale.»


Come immagina si evolverà la dimensione sociale da qui a cinque anni?

«Mi sento di essere positiva. Voglio pensare che gradatamente si svilupperà una sensibilità maggiore verso le conseguenze psicologiche ed umane della pandemia, una sensibilità a 360 gradi, che non separi il corpo della medicina da quello delle emozioni. Voglio pensare che la nostra intelligenza emotiva sappia rispondere con strumenti adeguati anche dal punto di vista psicologico a questo disagio collettivo di proporzioni gigantesche. Ciò che, come esseri umani, ci mantiene vivi non è soltanto la salute del corpo, ma anche una dimensione sana della della nostra vita interiore e pulsionale, senza le quali diventa difficile la relazione col mondo e con noi stessi.»

 

Al di là della pandemia, la sfera legata alla psiche viene spesso sottovalutata e accantonata?

«Mi sento di dire che rispetto agli anni passati c’è una maggiore sensibilizzazione verso il mondo psicologico.
C’è un’apertura. Soprattutto nel mondo giovanile ci sono meno tabù rispetto all’argomento, e i giovani non hanno alcun senso di disagio o di vergogna nel chiedere aiuto a uno psicologo per gestire un malessere a cui danno, anche da soli, una connotazione psicologica, comprendendo l’importanza di affrontarlo. C’è più attenzione nelle famiglie e anche nelle scuole, dove vengono spesso istituiti degli sportelli di ascolto proprio per le difficoltà che possono incontrare i ragazzi nell’arco della loro crescita.»

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