Con Duchamp, molto di più che con Apollinaire, Brancusi, Man Ray, Picabia, Breton, si conferma che nel ‘900, è nata un’anti arte fondata sulla nominazione, per cui uno scolabottiglie o un water sanitario, possono essere esposti in una galleria o in un museo, privati della loro funzionalità originaria e assunti nell’olimpo delle inutilità da conservare. Con Duchamp nasce un nuovo museo, dove possono entrare oggetti poveri che altrimenti sarebbero finiti in pattumiera e in discarica, ma che, col suo idealismo, vengono trasfigurati in chiave apparentemente ironica, in realtà molto sacrale, seppure di una sacralità sui generis, dove non si incontrano angeli e santi, ma stoviglie e altri oggetti della ordinaria quotidianità. Il suo odio per ogni destinazione sociale del lavoro dell’artista, lo connota come un aristocratico che si permette di correggere il mondo, percepito come una sommatoria di errori e impertinenze che solo la materia grigia, può mettere a posto, per questo la sua rinuncia alla pittura va vista come una declinazione della sua personalità, fatta più per la recitazione davanti ad un grande pubblico, piuttosto che per la riflessione segreta di uno studio, perché il suo è un dannunzianesimo della passività che preferisce farsi passare il mondo davanti, piuttosto che attraversarlo con qualunque passo.
Duchamp non è mai irruente, non è mai precipitoso, ma è sempre imprevedibile, come si addice ad un grande giocatore di scacchi, in quella speciale guerra dove nessuno muore, ma a sbagliare una mossa, si rischia di perdere tutto. Il suo dadaismo non è gestuale e plateale, perché il suo pensiero è complesso, nel contemplare la fine di ogni accademismo pittorico e nel mettere in scena il protagonismo messianico dell’artista, che non ha più bisogno di costruire niente, ma gli basta toccare un oggetto qualsiasi, per trasformarlo ipso fatto in opera d’arte, che, chiaramente, non può essere giudicata con le categorie del bello e del brutto, ma con criteri sociologici, psicologici, antropologici, che non ne stabiliscono la parentela che non c’è, ma ne confermano la difformità e l’estraneità. Ci si chiede spesso il motivo per cui il passaggio dal Novecento al Duemila, sia avvenuto in maniera inavvertita, senza traumi, senza schioccare di avanguardie, senza contestazioni, come era avvenuto, invece, per il passaggio dall’Ottocento al Novecento, quando era sembrato che tutto dovesse rompersi in una grande discontinuità. In effetti si tratta di una fenomenica di grande diversità, che fa pensare, a molti, di un appiattimento nella ripetizione, in un clima di continuità, di piccoli spostamenti formali, senza contestazioni né movimenti rivoluzionari con la pretesa di rivoluzionare la vita e il mondo.
C’è da dire che in questi decenni lo spirito delle avanguardie, cubista, futurista, dadaista, ha scavato in lungo e in largo, decostruendo una sintassi centenaria dell’arte, contenuta nella sua storia, per cui è venuta meno la distinzione tra innovatori e difensori della tradizione, per cui la tensione della ricerca, dell’innovazione, è diventata endemica, ha impregnato tutti, non avendo più, quindi, bisogno di movimenti specifici. La vita dell’arte contemporanea, è diventata un continuum di piccole scosse, di continue trasformazioni, che si sono installate nella testa degli artisti, pervadendo tutto il sistema dell’arte, per cui non c’è più bisogno di grandi scosse e di grandi catastrofi, in quanto tutto è diventato elastico, provvisorio, in un grande coacervo, dove coesistono le cose più diverse, da quelle fatte a regola d’arte (come nel passato) a quelle che, in altri tempi, si sarebbero definite fenomeni da baraccone. Insomma, un grande multiculturalismo, da metafora, che include tutto e rende difficili i criteri di ermeneutica e di valutazione, rimandando a personaggi come Marcel Duchamp, la radicalità di un atteggiamento che ha portato all’abbandono della pittura pittura, fatta di regole e di stilistiche, con un forte premio per la genealogia e l’ontologia, per convergere su una pittura idea, in cui non è necessaria una disciplina formale, ma del coesistere, conflittuale, di tutte le trovate di questo geniale giocatore di scacchi, collegando scandagli biografici, con la gestazione delle sue macchine celibi, nel regno della finzione e della teatralità mimetica, che ha portato qualche decennio dopo, negli anni Settanta, ad una riduzione concettuale di tutto, fino alla quasi scomparsa dell’opera, sintetizzata nella formula, di forte paradossalità alchemica, secondo cui il processo mentale è tutto e l’opera è nulla.
E dopo gli anni Ottanta, dopo il “ritorno all’ordine” della Transavanguardia, le cose sono diventate più complesse e meno ideologiche, nel senso che è nato un eclettismo, dapprima tollerante e poi pluralista, man mano che è andata attenuandosi ogni forma di filosofia del mondo, di tipo monopolista. Quanto, appunto, accade oggi, in cui assistiamo ad un convergere delle diversità più accentuate, nei luoghi della creatività, a volte con il filtro della straniazione a volte con il simulatore dell’assimilazione. Di quest’arte, del mischiare, del sostituire, Duchamp è l’inesauribile incompiuto, il salto prossimo venturo, un giovane in mezzo a noi, ironico, fascinoso utilizzatore di ruote, orinatoi, la cui origine è fondata sulla tradizione, ma poi capace di seguire il corso del sole, fino ad un punto d’occidente in cui si contempla la notte (emula della morte) ben sapendo che il corso delle ombre porta, sempre, ad una nuova luce.
Prof. Pasquale Lettieri
Critico d’arte