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sabato, 16 Novembre, 2024

L’urbanistica del futuro deve guardare alle polis e rispettare certi modelli

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di Giovanni Perrillo

Settimana scorsa si è iniziato ad affrontare il grande problema dell’urbanistica moderna e dei suoi limiti quando si parla di tessuto urbano e di ecologia. Un discorso complesso che in questa seconda puntata affronta il problema delle megalopoli urbane, della globalizzazione e di un certo tipo di inquinamento, l’inquinamento orizzontale.
Gli ecosistemi naturali (come un bosco, un sistema umido…) funzionano normalmente con modelli verticali, lo stesso trasporto di materia, energia e informazione si verifica generalmente in senso verticale: da monte a valle, dalle falde sotterranee a quelle superficiali che sono in contatto con il suolo. Al contrario, le nostre strutture artificiali hanno diffuso in maniera eccessiva il trasporto orizzontale che influenza negativamente l’ambiente.
Anche l’eccessivo trasporto di informazione può produrre condizioni di “inquinamento”. Abbiamo assunto in modo acriticamente positivo il paradigma del buon funzionamento sociale dell’informazione mediante le sue applicazioni, a partire dalla gestione e dall’utilizzazione dei big data, che ci hanno trasformato da cittadini in consumatori, in fornitori inconsapevoli di dati e informazioni sulle nostre identità ed al tempo stesso in destinatari di messaggi (politici o commerciali).
Inoltre, nella fase che attraversiamo la dimensione essenziale del contatto personale viene radicalmente messa in discussione, nel tentativo di ridurre il pericolo di contagio della pandemia provocato dal contatto umano. Nel tentativo di supplire a queste relazioni di necessità interrotte mediante quelle tecnologiche e digitali, rischiamo di trasformare il contatto sociale in un’esaltazione pericolosa delle relazioni esclusivamente digitali.
Oggi, con questa epidemia, ci accorgiamo di un fatto che tuttavia avrebbe dovuto essere abbastanza evidente: la velocità della globalizzazione è la stessa che il virus ha utilizzato per diffondersi.
Essa è stata, non a caso, molto più rapida a diffondersi in quelle aree dove la densità della popolazione (il rapporto tra numero di residenti e superficie) è più alta. La contiguità urbanistica, portata agli eccessi, ha determinato le condizioni ideali per la propagazione rapida del virus all’interno degli esseri umani.
Trarre quindi alcune considerazioni sul continuo aumento della densità urbana, appare logico e doveroso. In questi ultimi decenni le politiche di pianificazione urbanistica hanno incentivato un continuo aumento della densità urbana, occupando tutti i “vuoti urbani” possibili discutendo solo di “rimboschimento urbano” e non di qualità del disegno urbanistico e dell’architettura della città. Il dibattito, al limite, si è concentrato sul mascheramento dell’architettura esistente senza pensare ad un nuovo rapporto tra persone e territorio. Dobbiamo ricominciare a parlare di città in termini di polis, mettendo in relazione la città delle pietre con quella degli uomini, a maggior ragione se pensiamo che nel 2050, tra soli 30 anni, ben l’80% della popolazione mondiale vivrà nelle città, che assumeranno forme diverse: di grandi megalopoli urbane rispetto alle attuali città.
Dobbiamo, inoltre, allontanarci dalla suggestione di una città solo tecnologica, dominata da digitalizzazione e dematerializzazione, che rischia di farci dimenticare quello che è il DNA delle relazioni umane, ovvero il dialogo, il confronto ed il contraddittorio.
Occorre, pertanto, concepire una nuova progettualità urbana per il futuro, ridando senso alle città, ricalibrando i rapporti tra pieni e vuoti urbani, tra costruito ed aree verdi: dato che solo questo è un “provvedimento sanitario” veramente definitivo, in grado di aiutare ad evitare che tutto ciò possa ritornare di nuovo.

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