di Martina Biassoni
La tecnica dell’upcycling non è nuova nell’ambiente del riuso e del riciclo. Si tratta infatti di quel metodo che riprende vecchi oggetti o parti di essi e dona loro nuova vita. Un aspetto molto importante per quanto riguarda il riciclo degli oggetti: infatti non solo l’upcycling dona loro una nuova vita, ma anche un nuovo splendore, una nuova importanza ed un compito più elevato rispetto al precedente.
Questa tecnica è praticabile sia nell’ambito del design, come quando ci si diletta a modificare i vecchi pallet o le vecchie casse, dando loro una nuovissima destinazione d’uso come può essere quella di tavolini, mensole, ecc., sia in moltissimi altri ambiti che fanno parte della nostra quotidianità, come quello della moda.
Ed è di quest’ultimo che vorrei parlare, perché il luccicante mondo della moda non ha molti lustrini in suo favore nell’ambito di ecosostenibilità ed attenzione ambientale. Purtroppo è un dato di fatto: per creare nuove fibre, nuovi tessuti, partendo da zero – un piccolissimo filo – si sfruttano, se si tratta di seta, i piccoli bachi, se si tratta di cotone, il terreno, e, quando si tratta di fibre create in laboratorio, ad essere sfruttata è l’energia elettrica. Per non parlare della quantità di inquinamento prodotta dalle tinte per i tessuti, dall’ingente quantità d’acqua usata in tutto il processo tessile, o dei poveri lavoratori che vengono sfruttati e che si trovano a dover fare turni di lavoro devastanti, spesso sotto il torrido sole in sud america, o, altrimenti, nelle fabbriche in cui lavorano con ritmi massacranti.
Non voglio fare di tutta l’erba un fascio, ma bisogna ricordare che, se amiamo l’accesso a delle nuove collezioni streetwear dei negozi di disposable fashion a cadenza mensile, dietro vi è una quantità infinita di inquinamento, che, grazie appunto all’upcycling, sarebbe possibile diminuire.
Prendiamo ad esempio un vecchio paio di jeans corto di gamba, ma perfetto sul punto vita, che potrebbe essere riqualificato sotto due fronti: la parte dalla vita alla coscia può trasformarsi in shorts o mini-skirt, e le gambe possono essere riciclate per creare le maniche di un giubbino piuttosto che degli accessori un po’ rock. E, tengo a precisarlo, il denim è il tipo di tessuto che inquina maggiormente durante il processo di produzione ex-novo.
Non male per un vecchio paio di pantaloni, eh?
E così è possibile per moltissimi capi, ai quali nessuno darebbe più amore perché fuori moda o non più in “perfetta forma”, così da riqualificarli, renderli perfetti per una nuova vita e far sì che altre mani, di un altro proprietario, possano amare qualcosa che già ha una storia, così da creare una sorta di “travelling pants 2.0”.
Grazie a questo processo si crea un filo conduttore che va dalla filiera produttiva al primo acquirente e che non si ferma, ma prosegue nel tempo, nello spazio e nelle emozioni, nei ricordi. Che bello sapere di non aver prodotto rifiuti che impiegheranno decenni ad essere smaltiti, ma aver creato un nuovo capo che possa essere amato da altri.
O anche solo riconsegnando nei vari negozi qualche vecchio capo in disuso si diventa parte della grande famiglia del riciclo creativo, in cui molto spesso le fibre e i tessuti vengono riutilizzati per creare nuovi vestiti che finiranno nelle case di qualcun altro, magari dall’altra parte del mondo.