Molte sono le opere scientifiche di grande importanza, ma sicuramente, almeno in ambito biologico, poche hanno avuto la portata e le conseguenze dell’opera più famosa di Charles Darwin: “L’origine delle specie”.
L’opera dà inizio alla moderna teoria dell’evoluzione ponendo le basi di uno dei capi saldi della scienza odierna. Darwin non ha compreso tutto e, in molte cose, la sua teoria è superata e smentita, ma nei suoi principi basilari rimane valida. Grande merito di Darwin fu quello di comprendere che l’evoluzione prosegue grazie alla selezione naturale. Già prima di lui Lamarck aveva immaginato che le forme viventi non fossero immutabili, ma non aveva compreso il meccanismo di base dell’evoluzione. Secondo lui, infatti, le forme di vita evolvevano grazie all’uso o al disuso degli organi che provocava piccole variazioni nell’individuo, variazioni che poi passavano in via ereditaria ai figli. Anche Darwin non nega del tutto questo principio, ma lo ritiene comunque marginale. Ci vorrà la scoperta delle leggi di Mendel e, infine, del DNA per smentire definitivamente la teoria di Lamarck.
Al di là di tutto rimane il genio di un naturalista che ha saputo cogliere l’essenza di una legge naturale complessa, pur essendo all’oscuro di molte delle cose che ne danno prova. Da poche pennellate Darwin ha saputo riconoscere il quadro, descrivendolo con impressionante lucidità e precisione. La trattazione del libro è fluida anche se estremamente ricca di particolari e di esempi tecnici che l’autore riesce a rendere comprensibili perfino al profano. È interessante vedere come si forma una teoria dall’unione di fatti in sé differenti e apparentemente sconnessi. Cosa c’entrano le isole oceaniche e la loro fauna, le rocce delle coste inglesi, i fossili e l’allevamento dei piccioni? Poco o nulla, a prima vista. Eppure a Darwin tutte queste cose diedero da pensare e riuscì a vedere la legge che stava dietro a fatti che il creazionismo riusciva sempre meno a spiegare. Come era possibile infatti che esistessero organi rudimentali inutili come le ali atrofizzate di alcuni insetti incapaci di volare? Perché Dio avrebbe dovuto creare un organo senza nessuna utilità? Questo fatto, apparentemente privo di senso, diventa chiarissimo con la teoria dell’evoluzione. Un organo divenuto non più utile si riduce e sparisce, ma per questo servono moltissime generazioni.
Dall’allevamento Darwin trae spunto per la formulazione della teoria della selezione naturale. Egli nota come le varietà di animali allevati non esistano in natura e come siano create artificialmente dall’uomo attraverso, appunto, la selezione. Perché dunque la natura non potrebbe fare altrettanto? Certo, i caratteri utili sono di tipo diverso e la selezione non avviene nello stesso modo. La natura seleziona attraverso la lotta per la vita. Nella competizione sopravvive il più adatto all’ambiente, il quale avrà maggiori possibilità di riproduzione. In questo modo i caratteri vantaggiosi saranno ereditati e quelli svantaggiosi tenderanno a sparire. Tutto ciò è possibile perché le specie hanno in sé una certa tendenza alla variabilità. È sulle variazioni individuali, che la natura applica la selezione. E lo stesso fa l’uomo nell’allevamento, anche se con risultati assai meno notevoli. Molto bello è il discorso sulla selezione attuata dall’uomo. Darwin divide due tipi di selezione artificiale. La selezione scientificamente fatta, praticata con coscienza e organizzazione, e quella inconscia, fatta dai popoli antichi e da quelli più primitivi, i quali si limitano a privilegiare quei capi d’allevamento che sembrano più forti. In questo modo sarebbero nate le varietà storiche di piante coltivate e di animali allevati.
Ancor più geniale è la spiegazione dell’esistenza delle formiche operaie. Se infatti esse sembrano essere un esempio magnifico di adattamento all’ambiente, pongono però un problema non indifferente. La selezione e l’evoluzione si basano sul principio dell’ereditarietà. Se un essere non si riproduce non può trasmettere i caratteri ed essi, per quanto favorevoli, scompariranno, andando perduti con la sua morte. E le formiche operaie sono, appunto, sterili. Il problema si risolve spostando lo sguardo dall’individuo alla comunità o alla specie. La selezione favorirà quelle femmine fertili che generano figlie sterili migliori perché, servendo la regina (la femmina fertile) meglio ne favoriranno la vittoria nella lotta per la vita. La selezione quindi agisce anche sulle operaie e sui loro caratteri, anche se in modo indiretto.
In certi punti il testo, a esser sinceri, annaspa un po’. Ci sono infatti argomenti che il Darwin non riesce a spiegare in modo convincete. Ad esempio sulla sterilità degli incroci il naturalista sembra arrampicarsi un po’ sugli specchi. Fa molti esempi di casi diversissimi, mostrando una conoscenza dell’argomento notevole e una ricerca accurata, ma non riesce a dare una spiegazione unitaria. In effetti la natura a tal riguardo sembra fare i capricci all’occhio del profano. Ci sono individui nati da genitori di specie diverse che sono perfettamente fertili, a volte addirittura più dei genitori, e altri sterili. E ci sono casi di individui della stessa specie che risultano tra loro incompatibili da un punto di vista riproduttivo. Non possiamo fare a Darwin una colpa del non essere riuscito a trovare una spiegazione forte e inattaccabile. Solo la scoperta del DNA e dei suoi meccanismi di base ha potuto spiegare simili comportamenti. L’autore però, senza perdersi d’animo, ammette la debolezza (facendo comunque e giustamente notare l’ignoranza della scienza dell’epoca su troppi temi) e trae dall’apparente disordine dei fatti una riflessione di grande portata scientifica sulla sistematica. Egli abbandona la vecchia e rigida definizione di specie, resa inadeguata dalle troppe eccezioni. Fino ad allora due individui erano ritenuti della stessa specie se potevano generare figli fertili o generare entrambi con un terzo individuo (due animali dello stesso sesso non generano, ma possono generare con un terzo animale del sesso opposto). Con gli animali la cosa sembrava funzionare. Un asino e una cavalla, infatti, generano un mulo, ma, essendo i genitori di specie diverse, il mulo è sterile. Con le piante però la faccenda si complica. Capita che due piante di specie diverse generino figli perfettamente fertili, mentre due della stessa specie li generano sterili o non li generano affatto. Per questo Darwin mette in dubbio il concetto stesso di specie e ancor più quello di varietà. C’è poi un’altra questione. Secondo la teoria dell’evoluzione tra due esseri ci sono un numero indefinito di forme intermedie. Se non lo vediamo è solo perché la gran parte di esse si è estinta. Ma se immaginassimo di averle tutte non riusciremmo a porre un limite preciso, un confine dove finisce una specie e inizia l’altra. Se le mettessimo in fila ordinandole a seconda di quanto divergono dalle precedenti, ogni individuo si riprodurrebbe benissimo con quello vicino, assai affine a lui, ma non lo farebbe con uno lontano. Vi faccio un esempio che non fa parte di quelli citati da Darwin, ma che sicuramente è facile da comprendere. Tutti ammettiamo facilmente che uno svedese biondo con gli occhi azzurri fa parte di una “razza” diversa da un sudanese nero come la notte. Eppure se prendiamo un individuo per ogni villaggio partendo dalla Svezia fino al Sudan, vedremo la pelle scurirsi gradualmente e non saremo in grado di porre un limite netto tra bianchi e neri. Ne segue che il concetto stesso di “razza” o “varietà” (i due termini sono sinonimi, ma razza si usa soprattutto per gli animali e varietà per le piante) non ha senso. Come risolvere quindi il problema? Come catalogare i viventi? Darwin non propone di eliminare le specie, ma di mantenerle con la coscienza della fallacia e dell’artificialità del concetto. E per distinguere una specie da una varietà Darwin propone:
I sistematici dovranno soltanto decidere se (e non si tratta di un compito facile) una data forma sia abbastanza costante e distinta dalle altre forme, al punto da poter essere definita e, se definibile, se le differenze siano sufficienti a giustificare il rango di specie.
Non è solo la teoria che Darwin prospetta ad essere importante in questo libro. Darwin infatti si libera di quelle tendenze in qualche modo religiose e deterministe della scienza a lui contemporanea. Egli smette di pensare allo scopo della natura e delle variazioni, smette perfino di pensare che, di scopo, ce ne sia uno. Introduce invece una visione meccanicista dove le cose avvengono e basta perché tale è la legge dell’universo e non perché la natura tenda ad uno scopo preciso e predeterminato nella creazione, creazione che Darwin, comunque, non nega. Il naturalista nega il creazionismo, ovvero quella teoria che sostiene che le forme viventi sono state create così come sono e che le specie non derivano da altre per evoluzione. Egli sostiene invece che il Creatore ha creato la prima forma vivente (o poche forme primigenie) dalla quale sono derivate le altre. La cosa non è molto argomentata. Darwin non si occupa dell’origine della vita, ma del modo in cui si sviluppa e si evolve. Abilmente evita anche di toccare il discorso dell’origine dell’uomo che sicuramente avrebbe destato non pochi attacchi e non poche contestazioni. Con l’”Origine delle specie” Darwin segna un confine tra la biologia ancora intrisa di credenze religiose o panteiste e la biologia basata sull’osservazione schietta dei fatti e sulle leggi della materia. Egli fa molto più che pubblicare una teoria, pone le basi della biologia moderna.
Concludo questa recensione con una nota sullo stile e sul linguaggio. Da questo punto di vista Darwin è completamente figlio del suo tempo. A volte si abbandona a commenti e pareri personali che oggi uno scienziato non metterebbe in un trattato tecnico. Inoltre usa termini che a noi potrebbero sembrare “scorretti”. Gli esseri viventi con notevoli variazioni individuali vengono definiti “mostruosità”, i popoli primitivi “selvaggi”. Non ho percepito del razzismo in ciò. Anzi, la teoria Darwiniana sembra in più punti negare il razzismo. Queste parole erano semplicemente termini comuni nel linguaggio dell’epoca. In seguito (spesso giustamente) hanno assunto quel carattere negativo che oggi attribuiamo loro. Ricordiamo ad esempio che per Darwin mostruoso significa solo estremamente diverso dalla norma in un certo carattere. Le rose con molti petali che siamo abituati ad ammirare nei giardini sono varietà “mostruose” in senso darwiniano se paragonate alle rose in natura, con solo cinque petali.
Vi chiedo scusa per la lunghezza di questa recensione, ma credo che un libro come l’”Origine delle specie” la meriti. Ci sarebbe ancora così tanto da dire!
Consiglio a tutti di leggerlo, magari nell’edizione Newton Compton , con traduzione di Celso Balducci e introduzione di Pietro Omodeo. Un’edizione davvero ben curata e non molto costosa.
Buona lettura!
Enrico Proserpio