L’altro ieri abbiamo pubblicato una prima parte di un articolo che parlava di Fisco ed Imprese dove evidenziavamo come le tasse incidano a tal punto da obbligare le imprese ad indebitarsi per pagarle. Purtroppo, questo è solo un aspetto del problema, in quanto anche la parte normativa, burocratica e di controllo fiscale è pesantemente deficitaria.
In una situazione come quella che abbiamo descritto l’altro ieri, è chiaro che quando lo Stato chiede troppo, fisiologicamente molte imprese cercano di salvarsi pagando meno tasse. Questo passa dall’adozione di strumenti perfettamente legali, all’elusione, all’evasione tout court.
In Italia è, secondo noi scorrettamente, l’elusione condannata e perseguita equiparandola all’evasione.
Non dovrebbe essere invece così, a nostro avviso, perché questa è possibile quando le norme sono scritte male e perché sarebbe come dire che un avvocato non può inventarsi una strategia per far assolvere il proprio cliente accusato di qualche reato o quando, in campo civile, trova una interpretazione favorevole al suo cliente. Ora, se è lecito un simile comportamento in campo penale o civile, perché diventa sconveniente ed esecrabile in campo tributario?
Se una norma è scritta male, la colpa è del legislatore, non di chi la usa e se un consulente tributario trova una via intelligente per far risparmiare il proprio cliente basandosi sulla normativa vigente, che male c’è? E’ pagato per questo!
Diversa, certamente, è l’evasione, che è un atto disonesto, ma a volte necessario per garantire la sopravvivenza di una azienda. Del resto, se lo Stato medesimo gioca scorrettamente con interpretazioni contro ogni logica, con livelli di tassazione fuori controllo ed eccessive, se le verifiche rischiano di essere esiziali per l’impresa, allora è più difficile spiegare ad un imprenditore perché lui debba stare alle regole del gioco quando è per prima la contro parte che non lo fa.
Alcuni arrivano addirittura a sostenere che sia un atto di legittima difesa.
Parlando di correttezza della controparte, è noto che quando la Guardia di Finanza compie una ispezione tributaria in una azienda, questa si installa a lungo e l’attività della società viene bloccata, con un evidente danno economico.
Non basta. E’ di qualche giorno fa la notizia che è stata pubblicata dal quotidiano Libero, che ha riportato una sorta di intervista ad un Maresciallo della Guardia di Finanza e che è però rimasto anonimo.
Il finanziere, si è sfogato lasciando intendere che per lui il suo lavoro di controllo è diventato un frustrante quotidiano. Infatti, la Guardia di Finanza deve fare gli accertamenti, ma poi questi spesso passano il vaglio di un giudizio in commissione tributaria perché l’imprenditore oppone ricorso.
Il risultato è che tra quanto accertato e quanto effettivamente riscosso dallo Stato, magari a distanza di molti anni, vi è una grande differenza, con costi importanti per tutti e, addirittura, può anche accadere che non riscuota nulla.
Come mai accade ciò? Ce lo spiega questo milite.Da ciò che racconta, si potrebbe dedurre che in realtà, quanto lo Stato effettivamente recuperi dall’evasione, non interessi. Su 64.000 membri, solo 4.000 sono dedicati alla lotta sul campo contro l’evasione e sono organizzati con un Generale per Provincia, più uno per Regione. Alla Guardia di Finanza vengono perciò fissati degli obiettivi anno per anno che, “naturalmente”, non possono essere mai inferiori all’anno precedente.
Se questo caso mai si verificasse, gli addetti sarebbero costretti a rendere conto al reparto centrale di Roma ed il Generale che guida quella provincia rischierebbe, stando a quanto dichiara il Maresciallo, un blocco della carriera. E’ chiaro che con simili presupposti nessuno voglia incorrere in un simile “incidente”. Per contro, al loro raggiungimento, scattano premi incentivanti e gli stipendi, in primis dei Generali, sembra che cambino significativamente.
Egli dichiara anche che nel suo Corpo esistono gruppi dedicati a fare previsioni del recupero d’imposta, che, ovviamente, a fine anno, devono collimare con quanto effettivamente constatato. Un po’ insomma, come i Comuni, che devono mettere in bilancio le multe che emetteranno.
Egli sostiene che, date le premesse, anche quando ci si trova di fronte a cose illogiche, si decide di procedere, magari perché un ispettore, spinto da un momento di euforia, si è lasciato andare ad una previsione di recupero con un ufficiale, il quale provvede prontamente ad informarne i superiori.
E’ chiaro che poi nessuno intende tornare indietro. Così, un semplice verbale di contestazione, viene invece assunto come dato acquisito ed ufficiale di reddito non dichiarato. Questa “ossessione”, poi, spinge a scegliere, nel caso di più strade possibili da intraprendere, quella che potrebbe portare al valore più alto per il Fisco.
Poco importa, stando al Maresciallo, se questa sia la via più corretta; a quel punto, il problema è solo come farlo saltare fuori. In più, questa ricerca affannosa di un cavillo, di una irregolarità a tutti i costi è dettata anche dal desiderio di vedere riconosciuto il proprio lavoro, foss’anche con una semplice pacca sulle spalle.
In questa logica, dove il contribuente sembrerebbe solo la vacca da mungere, tutti quanti gli operatori del Fisco si riferiscono ad uno strumento, studiato a tavolino, la “mediana”, che determina quale sia il valore medio della verifica utile a raggiungere l’obiettivo prefissato.
Il Maresciallo dichiara che qualora il verbale dovesse essere inferiore a quanto determinato con questo metodo, allora la verifica diviene un semplice controllo, per non “sporcare” le statistiche.
Questo spiega poi come il 21 Giugno, festa del Corpo, vengono dati i risultati dell’azione contro l’evasione, ma che, come si capisce, sono solo sulla carta.Insomma, delle grida manzoniane numeriche. C’è anche un altro aspetto da considerare: la nostra normativa tributaria, in cui c’è tutto ed il contrario di tutto.
Come ben sanno gli imprenditori, con un sistema di leggi di questo genere, (intenzionale?), è quasi impossibile essere a norma e quindi un controllo della Guardia di Finanza porta quasi sicuramente ad una contestazione ed è evidente che così è possibile sempre individuare una disposizione che, in contrasto a quanto sostenuto dal contribuente, che ovviamente e logicamente, individua una norma favorevole a lui, la Guardia di Finanza ne trova un’altra che sia all’opposto e peggiorativa, anche se magari poco sensata.
Se poi si considera che oltre a ciò, una selva di sentenze possono essere utilizzate alla bisogna e che, naturalmente, sono interpretative della legge, il tutto per giustificare giuridicamente una posizione assunta. Accade a volte che il medesimo controllore abbia dato al contribuente una certa indicazione su come comportarsi e poi, magari, si è “corretto” inducendo il malcapitato in errore.
Così, magari, salta fuori, sulla medesima questione, una terza interpretazione, che ovviamente stravolge tutto e mette in difficoltà l’imprenditore, che si vede messo in condizione di dover pagare, anche quado non sarebbe dovuto.
In più, i verbali trasmessi alla Agenzia delle Entrate, che si fida quasi ciecamente, non vengono quasi mai, a detta del Maresciallo, contestati ed eventuali errori non vengono mai comunicati alla Guardia di Finanza che in pratica, rispetto a questo aspetto, è “cieca”. In pratica, in assenza di responsabilità, dove solo l’obiettivo finale conta, una volta che la Guardia di Finanza ha svolto formalmente il suo compito, non importa come la vicenda finisca.
Preceduta dalla sua fama, stando al milite, gli imprenditori accolgono sempre con la massima cortesia gli ispettori e non evidenziano il fatto che una simile situazione li blocca per settimane impedendo loro di lavorare. In ogni caso, la sorte dell’ispezionando è segnata. Non ha possibilità di farcela, anche quando chiama in suo aiuto i suoi consulenti, senza che peraltro riescano, il più delle volte, a far mutare posizione ai militi.
Accade che così gli imprenditori, stanchi della situazione, rinuncino a fare ricorso, prendendo atto dell’impossibilità di poter cambiare la situazione nell’immediato e che, considerando anche il fermo dell’azienda, paghino la sanzione. Questo senza contare alcuni casi laddove ispettori infedeli giochino sul blocco aziendale per proprio torna conto personale.
Il risultato è che chi lavora onestamente, chi sostanzialmente paga le tasse, ma è nella banca dati, viene vessato, mentre quelli che giocano sporco, aprono e chiudono partite I.V.A. in un amen, hanno società di comodo in paradisi fiscali, essendo molto più veloci della Guardia di Finanza, sfuggano ai controlli.
A completare il quadro. si aggiunge che i giudici delle commissioni tributarie sono composte da avvocati, ufficiali della Finanza in pensione, commercialisti che prestano la loro opera a fronte di gettoni di presenza quasi simbolici, dell’ordine di € 30-40, anche per cause di elevato valore. Ci chiediamo quale possa essere la motivazione che spinge questi giudici ad impegnarsi, visto le condizioni date. Quale impegno possono metterci per fare al meglio?
Tutto ciò in un quadro in cui la Guardia di Finanza, al pari di altre forze dell’ordine, soffre di penuria di risorse primarie, dalla carta, alle spillatrici, alla benzina; questo a dispetto del delicato compito, potenzialmente redditizio per lo Stato, cui è preposta. Anche la formazione, a detta del Maresciallo, è scarsa ed inevitabilmente, poi, spinge a cercare di portare casa un risultato, anche se fatto in maniera non corretta.
Alla luce di tutto questo, siamo spinti a chiederci quanto poi corrispondano a verità certi verbali che magari poi sfociano in processi e condanne, soprattutto quando ci sono in gioco cifre importanti e nomi famosi: a caso, ci vengono in mente gli esempi di Berlusconi e di Dolce & Gabbana, che proprio oggi sono stati condannati penalmente a 18 mesi per omessa dichiarazione dei redditi, nonostante, come abbiamo avuto modo di riferire in un recente articolo, che lo stesso sostituto procuratore avesse chiesto per loro la assoluzione.
A noi pare evidente che un simile situazione non debba essere tollerata ed accettata ulteriormente e sia necessario affrontare con decisione una riforma strutturale che deve partire, ancor prima che da norme e leggi, da un approccio mentale, perché quello attuale ci pare distorto e scorretto nel confronto di tutti gli attori e portatore di conseguenze kafkiane.
E’ necessario, dunque, per la salute dell’Italia, ridurre drasticamente la tassazione per portarla, per quanto riguarda le aziende, intorno al 20%, come avviene del resto anche in altri Paesi Europei, Germania compresa. Certo, per far ciò è necessario ridurre le pretese di questo nostro Stato vorace e dissipatore. Se ci riusciremo, almeno una parte dell’evasione scomparirà, perché non sarà più economicamente conveniente in rapporto ai rischi e questo è una parte della soluzione.
L’altra è l’approccio per i controlli, che secondo noi andrebbero affidati non più a dei militari, ma a dei professionisti molto ben preparati, molto ben pagati per evitare i rischi di fenomeni di corruzione o concussione, che sul territorio operino come ci risulta essere in Francia, dove i controlli sono fatti su appuntamento ogni due anni e l’imprenditore sa già che verranno, perché è certo, dove il personale addetto alle verifiche non si installa 5 mesi presso una azienda bloccandola, dove non c’è, a causa di un approccio sbagliato e leggi numerose e farraginose, una gara a chi frega meglio l’altra parte.
Insomma un approccio civile, con poche norme ben chiare scevre da possibili interpretazioni, dove, eccetto ciò che è espressamente proibito, tutto il resto è lecito.
E’ giusto pagare le tasse, ma è giusto che non uccidano le imprese, che non siano un ostacolo alla loro crescita sia in termini di oneri palesi ed occulti, che in termini di correttezza e trasparenza dei controlli, dove l’imprenditore non sia considerato un disonesto a prescindere e un oggetto da vessare.
(N.d.r.: Parliamo volutamente di oggetto e non di soggetto).
Fabio Ronchi