di Stefano Sannino
La poesia occidentale è ricca di storie d’amore che tutti siamo abituati a conoscere molto bene, ma è l’Oriente il vero luogo di provenienza di una metrica sensuale, dolce, accogliente e talvolta scandalosa per il dogmatico occidentale che la legge. È il caso del Kumārasaṃbhavam, un poema in versi scritto da Kālidāsa nel V secolo d.C.
Il poema racconta, come peraltro significa lo stesso titolo, della nascita di Kumāra, figlio di Śiva e Pārvatī, a sua volta figlia del monte Himālaya.
La storia raccontataci da Kālidāsa è però molto diversa da quelle a cui siamo abituati in Occidente: inizialmente è infatti, una storia di lutto, poi di un amore non ricambiato, poi di dolore auto-inflitto e solo infine di amore così come ci piace pensarlo. La grande abilità dell’autore sta proprio nel delineare tutti i sentimenti che ruotano attorno al desiderio ed all’amore stesso. Sentimenti che solitamente ed abitualmente vengono ignorati in favore di una narrazione che si concentrizza sul fulcro dei desideri umani: l’amore. Ma Kālidāsa non riesce a semplificare la natura in questo modo, e così ci racconta di un amore tra Dei che è prima di tutto sofferenza: sofferenza perché Śiva ha appena perso la moglie, ma anche perché Pārvāti non riesce a farsi amare da quel Dio, che suo padre voleva sposasse. Davanti a questo silenzioso rifiuto di Śiva, ancora in lutto per la moglie, Pārvāti inizia a mortificarsi a sottoporsi a pratiche ascetiche durissime, per conquistare l’attenzione del Dio. Ed in effetti, solo così riesce a farsi amare dal Dio che desidera. È evidente come la visione dell’amore che traspare nelle pagine di questo poema sia del tutto simile all’insieme di quelle pratiche ascetiche a cui Pārvāti si sottopone.
L’amore, secondo Kālidāsa, non è infatti altro che questo: sofferenza, ma anche sublimazione. Dolore, ma anche abnegazione, l’esercizio continuo delle virtù, la preghiera (specie come orazione mentale e meditazione) e il graduale distacco dal mondo. Ma anche compiacimento, abbandono del corpo, ma anche soddisfazione dell’anima.