di Alessandro Giugni
Dopo anni di attesa e di continui rinvii, l’Italia si appresta a conoscere una delle più radicali riforme del proprio sistema processuale grazie all’attuale Ministro della Giustizia, Marta Cartabia. L’8 luglio, infatti, il Consiglio dei Ministri ha approvato all’unanimità gli emendamenti proposti dal ministro, dopo una serrata opera di mediazione tra le diverse anime del Governo, al Ddl delega del 13 marzo 2020 (Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello).
Numerose sono le novità contenute in tali emendamenti: si parla di digitalizzazione e processo penale telematico, di rimodulazione dei termini delle indagini rispetto alla gravità del reato, viene limitata la celebrazione dell’udienza preliminare ai soli reati di particolare gravità, viene introdotto un mezzo di impugnazione straordinario innanzi alla Corte di Cassazione al fine di garantire l’esecuzione le sentenze della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, è stato ampliato il novero di pene accessorie relativamente alle quali il pm e l’imputato potranno accordarsi in caso di patteggiamento allargato.
L’innovazione che maggiormente colpisce è, però, quella relativa alla prescrizione. In primis, viene confermato quanto stabilito dall’art. 14 del ddl in oggetto a modifica dell’attuale art. 159 c.p., ossia che la pronuncia della sentenza di primo grado (sia essa di assoluzione o condanna) bloccherà la prescrizione. In secundis, e qui si ravvisa la novità più rilevante, gli emendamenti del Ministro Cartabia prevedono una durata massima di 2 anni dei processi d’Appello e di 1 anno per quelli in Cassazione. Viene, inoltre, sancita la possibilità di proroga dei termini di suddetti processi (1 anno per l’Appello e 6 mesi per la Cassazione) laddove essi ineriscano a reati di particolare gravità. Da ultimo, si stabilisce che, decorsi detti termini, sopravverrà l’improcedibilità.
Leggendo il contenuto della riforma sulla prescrizione, non possono, però, non sorgere alcuni dubbi. Il più rilevante emerge con chiarezza prendendo in considerazione un possibile futuro caso pratico. Premesso che, secondo le statistiche, i processi d’appello durano da un minimo di due anni e mezzo a un massimo di quasi 4 anni, cosa succederebbe laddove, dopo una sentenza di condanna in I° grado, i 2 anni previsti dalla riforma per l’Appello decorressero senza la pronuncia della sentenza? Il reato non potrebbe prescriversi, essendosi la prescrizione interrotta con la pronuncia di I° grado, ma non si potrebbe nemmeno procedere, essendo intervenuta l’improcedibilità (e qualsiasi norma che dovesse prevedere l’esecuzione della pena inflitta in I° grado fuori dai termini di procedibilità verrebbe sicuramente dichiarata costituzionalmente illegittima). A questo punto si vivrebbe una situazione paradossale: la parte civile che avesse ottenuto in I° grado il riconoscimento di un risarcimento non potrebbe fattivamente vederselo riconosciuto; dall’altro lato, se si desse esecuzione alla sentenza di I° grado, l’imputato ricorrente in Appello potrebbe eccepire che, se l’Appello stesso fosse stato celebrato nei tempi, egli sarebbe stato assolto.
Appare, dunque, necessario che, prima che la riforma entri in vigore, si provveda a chiarire simili dubbi, così da evitare che il rinnovamento della giustizia tanto atteso tradisca le aspettative e, invece che accorciare le tempistiche processuali, finisca per creare ulteriori nuovi problemi a un sistema giudiziario già fortemente in difficoltà.