Mercoledì 23 agosto un jet privato, modello Embraer Legacy 600, che viaggiava da Mosca a
San Pietroburgo, è precipitato nella regione di Tver, a 150 chilometri dal luogo del decollo. A
bordo dell’aereo c’erano nove persone, tra cui il miliardario russo e capo del gruppo
paramilitare Wagner, Yevgeny Prigozhin, e il suo numero due, Dmitri Utkin.
La morte di Prigozhin è stata confermata da una Commissione investigativa incaricata di
analizzare i resti del jet privato, che ha identificato i corpi in seguito ad un test del DNA.
Non è ancora chiaro cosa abbia causato la caduta dell’aereo, ma le agenzie di intelligence
occidentali sono concordi nel sostenere che è probabile che si sia verificata un’esplosione a
bordo del jet su cui viaggiava il miliardario russo.
Il luogo in cui è caduto il jet privato a bordo del quale viaggiava il miliardario russo Yevgeny Prigozhin.
Alla fine di giugno di quest’anno, Prigozhin aveva organizzato una rivolta armata nei
confronti della leadership militare russa – ufficialmente per forzarne la sostituzione,
ufficiosamente perché temeva la disgregazione della sua milizia paramilitare -, arrestatasi a
poche centinaia di chilometri dalla capitale dopo la mediazione del presidente bielorusso e
fantoccio di Vladimir Putin, Aleksandr Lukashenko. Il tentativo di golpe da parte del gruppo
Wagner aveva rappresentato la più audace sfida interna al regime di Vladimir Putin da
vent’anni a questa parte, mettendo in risalto le storture del sistema di potere verticale su cui,
dal 1999 in poi, la Federazione Russa si è poggiata.
La Russia è uno stato mafioso, che punisce dissidenti ed oppositori con logiche che
apparterrebbero alle cosche. È successo nel 2006, quando la giornalista Anna
Politkovskaya, che stava indagando sui crimini commessi dall’esercito russo in Cecenia, fu
assassinata nel suo appartamento di Mosca. È accaduto, ancora, nel 2015, quando Boris
Nemtsov, il più credibile oppositore al regime di Vladimir Putin, fu giustiziato a pochi passi
dal Cremlino. Ed è successo nel 2020, quando l’attuale leader dell’opposizione, Alexei
Navalny, subì un tentativo di avvelenamento a bordo di un volo che viaggiava da Tomsk a
Mosca.
Non stupisce che Prigozhin abbia incontrato lo stesso destino. Sulla sua testa c’era una
taglia dal 23 giugno scorso, quando aveva costretto il presidente russo a subire l’umiliazione
di una rivolta interna che avrebbe potuto minare (o che ha probabilmente minato) la stabilità
del suo regime.
Un soldato del gruppo Wagner in Bielorussia. (Wikimedia Commons)
In un’intervista dell’inizio di quest’anno, rilanciata pochi giorni fa dal giornale indipendente
russo Meduza, il presidente russo rivela al proprio intervistatore di non essere incline al
perdono verso una, ed una sola, categoria di persone: i traditori. Lo spettacolare assassinio
di Prigozhin si distingue, proprio in questo aspetto, dalle esecuzioni degli oppositori
avvenute negli ultimi vent’anni. Il miliardario era un uomo particolarmente vicino al
presidente russo ed era, d’altronde, noto come “lo chef di Putin”. In un regime mafioso, in cui
i tentativi di avvelenamento sono all’ordine del giorno, gestire i servizi di catering del leader
al potere rappresenta una evidente concessione di incondizionata fiducia. La sua morte
funge da promemoria per gli altri yes-man o aspiranti tali di cui il presidente russo è costretto
a circondarsi: l’attuale regime non è in discussione.
Prigozhin aveva preferito restare nell’ombra fino allo scoppio del conflitto in Ucraina, e aveva
addirittura denunciato i tentativi di accostamento al gruppo Wagner, rilanciati in più
occasioni, negli ultimi anni, dal giornale investigativo Bellingcat, in primis, e dagli giornali
occidentali. Dal 24 febbraio dello scorso anno è diventato più audace, ha conosciuto la fama
in patria e il consenso dei blogger militari, ha creduto di essere un elemento imprescindibile
nel conflitto in corso. Si sbagliava. Se il suo assassinio avrà ulteriori conseguenze nel
regime cleptocratico di Vladimir Putin o se chiuderà definitivamente il capitolo Wagner, lo
scopriremo nei prossimi mesi.
di Giuseppe Russo