di Alessandro Giugni
Nel precedente articolo di questa rubrica abbiamo iniziato ad approfondire la storia di Abbas, la quale risulta essere indissolubilmente legata alle vicende che hanno sconvolto il suo paese d’origine, l’Iran.
A seguito delle proteste tenutesi a Teheran nel dicembre del 1978 e della sempre più evidente impossibilità per lo Scià di continuare a governare, Abbas credette che alla fine della monarchia sarebbe conseguito l’avvento di una democrazia. Tale convinzione derivava, da un lato, dal fatto che l’élite iraniana si era fortemente occidentalizzata e, dall’altro, dal fatto che il Paese poteva contare su un’ingente ricchezza derivante dai giacimenti petroliferi.
Così non fu. I mullah, mossi da un profondo fanatismo religioso, riuscirono a imporsi. Abbas era solito ricordare un episodio in particolare. Nei mesi precedenti all’insediamento di Khomeini, si tenne un’assemblea in un’università di Teheran alla quale presero parte migliaia di persone. A un certo punto irruppero una ventina di disturbatori pagati dai mullah, «gente che tutti bollavano come ignorante […] avremmo dovuto avere la forza di prenderli, picchiarli e cacciarli via subito. Ma i leader universitari restarono fermi: “Il meeting finisce qui, noi siamo democratici e non vogliamo violenza”. Noi non eravamo pronti a pagare il prezzo della rivoluzione, loro sì, anche a prendere le armi. Per questo hanno vinto» dirà Abbas in un’intervista rilasciata a Mario Calabresi.
I mesi successivi furono estremamente concitati: l’ex primo ministro dello Scià, Amir Abbas Hoveida, uno dei primi a credere nel potenziale di Abbas, venne condannato a morte. Celebre lo scatto che il fotografo realizzò al cadavere dell’amico all’obitorio di Teheran.
A ciò seguì l’insediamento di Khomeini. Fu in quel momento che Abbas capì che il sogno di un paese democratico era svanito. Una predizione che il fotografo fece nel momento in cui si trovò a esaminare i negativi che aveva impressionato nel giorno in cui Khomeini aveva fatto ritorno dal suo esilio a Parigi. Una fotografia in particolare confliggeva nettamente con l’iconografia solare e pacifica, quasi fosse un novello Gandhi, che di lui era stata mostrata al mondo dai media. I suoi occhi, mentre scendeva dalla scala dell’aereo, erano carichi d’odio e di rancore. Sul suo volto era già scritta la direzione che avrebbe preso la storia dell’Iran di lì a poco.
Nella primavera del 1980, Editions Clétrat pubblicò Iran, la révolution confisquée, un’opera contenente 70 fotografie scattate da Abbas durante la Rivoluzione Iraniana. In copertina spiccava l’immagine di un mullah seduto in auto, con un revolver in mano e il finestrino abbassato: impossibile non cogliere il parallelismo di questa fotografia con l’iconografia dei gangster. Con questo libro Abbas aveva mostrato al mondo il vero volto di quella rivoluzione che gli estremisti religiosi avevano confiscato al popolo iraniano e ciò non poteva essere tollerato dal nuovo regime. Venne spiccato un mandato di arresto nei confronti del fotografo, il quale, però, riuscì a salvarsi rifugiandosi a Parigi.
Solo dopo 17 anni, questa la durata del suo esilio, Abbas rientrerà in contatto con l’Islam, intraprendendo, nel 1992, in Afghanistan un viaggio volto a raccontare gli scontri con l’Unione Sovietica che stavano dilaniando queste terre. Delle fotografie scattate in questi luoghi, due su tutte diventeranno particolarmente celebri. In primis, un ritratto di Aḥmad Shāh Masʿūd, passato alla storia con il soprannome di Leone del Panjshir, immerso nelle carte e circondato da quattro cellulari dopo aver assunto il ruolo di Ministro della Difesa. In secundis, una delle più note fotografie della storia di questo media: sulla via per Kabul, Abbas incontrò un mujahiddin seduto su un letto a castello intento a sorvegliare la strada. Questa fotografia differisce totalmente da quelle scattate durante la Rivoluzione Iraniana: non c’è volontà celebrativa, non c’è empatia con la causa dei mujahiddin, si coglie il profondo distacco di Abbas da quella vicenda. Un distacco che è ben riassunto nelle parole con le quali egli descrisse questa fotografia: «Non mi sono mai unito a loro nella lotta contro i russi, non li volevo glorificare dopo aver visto cosa era successo nel mio Paese. Qualcosa ho imparato e questa storia non me la sono bevuta»