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lunedì, 18 Novembre, 2024

LA PSICOLOGIA DELL'INDIFFERENZA.

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Immaginate di camminare per le strade affollate di una città, quando vedete una signora anziana che sta
portando delle buste della spesa apparentemente pesanti, che cosa fareste? Vi fermereste ad aiutarla o
proseguireste per la vostra strada? La maggior parte delle persone ha una considerazione altruistica di sé e
pertanto sostiene che si fermerebbe ad aiutare la signora, tuttavia in una situazione reale pochissima gente
metterebbe in atto un comportamento prosociale, un termine che si riferisce alla messa in atto di un
atteggiamento per produrre un vantaggio verso un’altra persona.
La psicologia sociale si è interessata molto al tema dell’aiuto, dell’empatia e dell’altruismo, ma in particolare
sono stati fatti diversi studi ed esperimenti sulla mancato aiuto dato agli altri, proprio per capire quali sono i
meccanismi psicologici che regolano il nostro comportamento prosociale.
In primo luogo si è tentato di capire da dove derivasse il comportamento prosociale e a questo proposito si sono
formati due grossi schieramenti: i sostenitori dell’innatismo e i sostenitori dell’apprendimento sociale.
Secondo gli innatisti il motivo per cui aiutiamo gli altri è scritto nei nostri geni, ovvero l’altruismo è un
comportamento biologicamente predefinito che avvantaggia il cooperante, ovvero colui che presta aiuto, inoltre
è possibile osservare che il comportamento prosociale è di fatto trasversale a tutte le specie, culture ed epoche.
L’altro grande schieramento che tenta di spiegare l’origine del comportamento prosociale è l’apprendimento
sociale, per cui l’aiutare gli altri non deriva da un codice genetico, ma da un’osservazione di modelli sociali
positivi e dall’apprendimento di norme sociale. Secondo questo approccio fin dalla giovane età siamo esposti a
delle regole sociali ed istituzionali che premiano coloro che si comportano in modo altruista e prosociale,
pertanto vedere un adulto che aiuta qualcuno spontaneamente, oppure ottenere un elogio o un premio per aver
prestato aiuto ad un compagno, farà crescere nel bambino la convinzione che la messa in atto di comportamenti
prosociale è una cosa buona.
Se al contrario si vede qualcuno in difficoltà e non si presta aiuto si deve essere etichettati come cattivi, incuranti
e insensibili? Se lo chiediamo ad un bambino risponderà di sì, perchè bisogna sempre aiutare gli altri; dopotutto
è ciò che i genitori e gli insegnati ci hanno sempre detto, ma a livello pratico in quanti metterebbero in atto ciò
che hanno appreso in tenera età?
Durante i primi anni ‘70 sono stati condotti diversi studi da parte di Bibb Latené e John Darley per indagare il
fenomeno dell’apatia dello spettatore, ovvero quella particolare, ma non poi tanto rara situazione, in cui un
gruppo di persone osservano una individuo in difficoltà senza prestargli aiuto. L’intero studio è stato messo in
atto in seguito ad un caso di cronaca avvenuto nel marzo 1964 a New York. Una giovane donna, Kitty
Genovese, mentre rientrava nel proprio appartamento nel Queens fu aggredita da un malvivente armato di
coltello; la donna mentre veniva accoltellata e malmenata tentò in tutti i modi di richiamare l’attenzione,
urlando e implorando aiuto, ma nessuno accorse ad aiutarla. A prima vista il caso sembrava la solita storia
sfortunata di una ragazza che si trovava al posto sbagliato nel momento sbagliato, ma il giorno seguente la
polizia interrogò gli abitanti del quartiere ed emerse che ben trentotto persone sentirono e videro l’intera
aggressione, senza però prestare aiuto alla giovane o chiamare le autorità. Dalle dichiarazione riportate tutte le
persone del quartiere ammisero di aver voluto aiutare la donna, ma alla fine tutti vi rinunciarono. Forse è
comprensibile che, per paura di essere aggredita a sua volta, una persona non correrebbe in strada di corsa, ma
perchè non chiamare la polizia?
Questo episodio particolarmente tragico fece scalpore e ricevette l’attenzione di esperti in diversi campi, come
medicina, criminologia, sociologia e psicologia sociale, tra cui i due già sopra citati Latené e Darley. I due
psicologi sociali, in seguito ad una serie di test condotti in laboratorio, misero a punto un modello cognitivo a
più fasi, a cui ogni persona farebbe riferimento prima di mettere in atto un comportamento prosociale.
Nella prima fase il potenziale soccorritore deve accorgersi che qualcosa non va, che c’è qualcosa di anomalo. Il
problema in questa fase sta nel fatto che ci sono una serie di norme sociali che fanno si che, quando siamo in un
contesto popolato da molte persone, la nostra capacità di esplorare l’ambiente intorno a noi è ridotta, pensiamo
alla norma sociale non esplicitata di evitare di fissare le persone che non conosciamo negli occhi quando siamo
in ascensore o per strada.
Nella seconda fase l’evento deve essere interpretato come una situazione di emergenza. In una situazione
ambigua ci possono essere più interpretazioni possibili, per esempio una ragazza che grida potrebbe essere in
pericolo oppure divertirsi con i propri amici, perciò le persone mettono in atto un esame della situazione e
recuperano delle informazioni dalle persone presenti per cercare di capire come comportarsi. Talvolta si verifica
un’ignoranza pluralistica, ovvero nessuno offre chiari indizi su come interpretare la situazione, pertanto c’è un
momento di stallo.
Nella terza fase il soccorritore deve stabilire se tocca proprio a lui intervenire o se altre persone possono farlo al
posto suo. In questa fase il soccorritore valuta quale sia il rischio collegato all’intervenire e ciò può far decidere
se mettere in atto un comportamento prosociale o no. In una situazione di emergenza la credenza che altre
persone stiano assistendo alla scena fa diminuire la responsabilità che ogni individuo si sente di dover assumere,
queste effetto viene chiamato meccanismo di diffusione della responsabilità ed è la spiegazione del perchè i
vicini di Kitty Genovese non hanno chiamato le autorità o sono intervenuti. Per interferire con questo
meccanismo è necessario che, in situazioni di pericolo, si chieda aiuto direttamente ad una singola persona, in
questo modo essa si sentirà direttamente responsabile e la sua azione iniziale porterà le altre persone presenti a
prestare aiuto a loro volta.
L’ultima fase è quella che porta all’azione vera e propria, ovvero è il momento in cui si trasforma la decisione in
un’azione dotata di senso. In questo caso il soccorritore si chiederà se è veramente in grado di prestare aiuto e se
può di fatto aiutare. Questa decisione può essere influenzata da diversi fattori, quali lo sai d’animo, la sicurezza
che si ha in se stessi e il grado di competenza che si crede di avere.
Nonostante gli studi fatti e le ricerche che provano come il non aiuto abbia di fatto una spiegazione psicologica
fondata e che quindi non renda una persona meno “buona”, ciò non va presa come una scusa per evitare del
tutto di aiutare qualcuno in difficoltà, infatti in una situazione di emergenza è necessario che solo una persona
metta in atto un comportamento prosociale per influenzare l’intera massa, pertanto una volta che si conoscono i
meccanismi psicologici che stanno alla base del non aiuto è possibile spezzarli.
Beatrice Capoferri,
studentessa di Psicologia all’Università Milano – Bicocca.
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