di Stefano Sannino
Ha fatto notizia negli ultimi giorni la richiesta pervenuta da Mosca di restituire tutti i capolavori appartenenti ai musei russi ed ora in esposizione all’estero. Una lettera arrivata dal direttore dell’Ermitage, Mikhail Piotrovsky, chiede infatti la restituzione immediata di alcuni capolavori di Tiziano ora in esposizione alla mostra «Tiziano e l’immagine della donna» presso il Palazzo Reale di Milano.
La nota inviata non solo in Italia, ma anche a tutti i Paesi stranieri che attualmente accolgono opere russe in esposizione, chiede dunque di proseguire con l’imballaggio e la spedizione delle opere in seguito ad una decisione presa dal Ministero della Cultura russo; una decisione che, pare, sia inequivocabile ed indiscutibile.
E così, a causa delle tensioni internazionali esacerbate dal conflitto russo-ucraino, centinaia di opere d’arte dal volere inestimabile sono costrette a tornare in Russia, private della loro stessa funzione: essere ammirate.
Ancora una volta la guerra sta mostrando al mondo tutto il suo potenziale distruttivo non solo attraverso l’assordante rumore delle bombe ed il pianto disperato della popolazione, ma anche attraverso la classica chiusura culturale che ne consegue. La decisione di ritirare ogni tipo di scambio o accordo culturale in essere tra la Russia e qualsiasi altro Stato non può che essere una tragedia per l’uomo, come totalità di specie, in cui nessuno è vincitore o sconfitto.
Tutti, quando la cultura viene preclusa al grande pubblico, sono perdenti.
È chiaro che l’aspetto culturale non possa preoccupare come fa invece quello strettamente bellico o umanitario di cui tutti abbiamo sentito parlare negli ultimi giorni; eppure, non dobbiamo dimenticarci mai che cultura e civiltà vanno sempre di pari passo: dove viene meno l’una, viene meno anche l’altra. È questo che bisogna tenere bene a mente quando si assiste a queste inderogabili richieste di restituzione di opere d’arte, quasi come se la guerra potesse essere trasferita anche su un piano culturale dove una nazione ha il potere di dire «questo è mio» e «questo è tuo».
Ma siamo davvero sicuri che la cultura funzioni così? Siamo davvero sicuri che sia possibile demarcare con assoluta certezza a chi appartenga un certo capolavoro, quasi come se l’arte avesse una nazionalità e la bellezza avesse un passaporto?
Forse, invece, arte e bellezza non sono russe, né italiane, né francesi, né inglesi, né americane; forse, arte e bellezza appartengono a tutta l’umanità senza distinzioni di razza, di religione, di orientamenti individuali.
Forse, e dico forse, dovremmo smetterla di avere la presunzione di poter reclamare il genio degli altri come se fosse nostro; dovremmo smetterla di credere che l’arte possa essere nostra piuttosto che «di altri» e non credere invece che tutti, parimenti, abbiamo diritto allo stupore.
Ma ora, mentre le bombe assordano i campi di battaglia e le città sotto assedio, c’è anche un altro rumore, più subdolo e parimenti assordante, a preoccuparci: il silenzio delle sale dei musei