di Gabriele Rizza
Aumento dei costi dell’energia, difficoltà nell’approvvigionamento delle materie prime, sistema dei trasporti globali in crisi, domanda superiore all’offerta: queste le principali cause della crisi del commercio mondiale, che si traduce in un aumento dei prezzi dei prodotti sugli scaffali, se non in una vera e propria irreperibilità. Una serie di coincidenze e concause che ha messo in ginocchio il cosiddetto supply chain, la catena dell’approvvigionamento, ossia il complesso e interconnesso sistema di trasporti e rifornimenti, che nell’era della globalizzazione è l’elemento che permette, ad esempio al consumatore, di poter acquistare un PC al negozio sotto casa, alle case editrici di stampare i libri, alla fabbrica di produrre forchette, ai giovani di fare shopping nelle grandi catene di abbigliamento.
Tutto, come è facile sospettare, parte dalla pandemia. Molte fabbriche si fermano a causa di restrizioni, contagi e quarantene, anche quelle dei principali paesi esportatori e produttori di componenti essenziali per le catene di produzione di diversi articoli, come Cina e Taiwan, ma anche la Germania. La bassa produzione non coincide con un equilibrato calo della domanda, anzi, aumenta vertiginosamente la richiesta di determinati prodotti, specie elettronici, a causa dei nuovi stili di vita richiesti dalla pandemia, quindi più tablet, pc, smartphone, materiali da ufficio, o console per i giovani che stanno a casa, a causa dello smartworking e della didattica a distanza. Produttori e fornitori si trovano spesso impreparati, altre volte impossibilitati ad adeguarsi alla domanda perché la produzione si programma ed esige certi standard consolidati nel tempo: così aumentare la produzione richiede tempo ed investimenti, oltre al personale, che latita ancora a causa delle restrizioni. Il sistema di produzione e commercio globale, messo in piedi per contenere i costi e far crescere i profitti dei giganti dell’economia, aggrava la situazione. Basti pensare che per assemblare un PC, in Cina, occorrono i microchip di Taiwan, schermi LED dalla Corea del Sud, componenti chimici e altri pezzi elettronici dall’Europa e altre regioni del mondo; questo significa che basta un ritardo anche sul più futile dei componenti per bloccare tutto il ciclo di produzione. E se anche il sistema dei trasporti tramite i container salpati dai porti ha gli stessi rallentamenti causati dalla pandemia, la situazione si è fatta ancor più difficile.
Alla ripresa della piena produzione si può immaginare come abbiano gravato queste criticità: l’esempio più lampante è quello dei microchip, richiesti più di quanti se ne possa produrre. Si deve produrre di più e occorrono più materie prime, che a loro volta aumentano di prezzo, e così i trasporti. Riempire un container dagli USA alla Cina prima costava duemila dollari, ora ne costa quindicimila. Una situazione che ancora lontana dall’assestarsi, e che a pagare sono i cittadini con costi più alti per molti beni e bollette di luce e gas più salate.