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martedì, 17 Dicembre, 2024

La fotografia di guerra: mezzo di comunicazione necessario o inutile spettacolarizzazione della morte?

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di Alessandro Giugni

Nei due precedenti appuntamenti di questa rubrica abbiamo, in primis, introdotto il tema dell’elementarità della fotografia e ripercorso alcune tappe fondamentali dell’affermazione dell’uso dei tempi di posa lunghi (clicca qui per leggere l’articolo in questione); in secundis, abbiamo analizzato l’importanza della fotografia di ritratto, sottolineando la sua valenza come finestra sull’eternità (clicca qui per leggere l’articolo).
Uno dei generi che, oggigiorno, maggiormente è in grado di attrarre l’attenzione del grande pubblico è fuor d’ogni dubbio la fotografia di guerra. Da vent’anni a questa parte siamo costantemente esposti al bombardamento mediatico di immagini provenienti dai teatri di guerra dell’Afghanistan e dell’Iraq. Chiunque di noi ha impressa nella mente almeno una fotografia di quel terribile giorno che fu l’11 settembre (del quale abbiamo trattato in un precedente articolo, clicca qui per leggerlo), di terroristi e jihadisti, di corpi di uomini, donne e bambini smembrati dall’esplosione di un’autobomba, di soldati americani impegnati in territorio nemico. La parola chiave è proprio quest’ultima, nemico. Chi sono i nemici? La stragrande maggioranza delle fotografie di guerra ha il grave difetto di presentarci “l’altro” come un qualcosa di lontano da noi, come un mondo a sé stante inconciliabile con il nostro essere. Spesso e volentieri le immagini di guerra sono frutto di un’attenta e ricercata costruzione da parte dei media, essendo esse funzionali alla costruzione di una ben precisa narrativa volta a creare nell’immaginario collettivo l’idea dell’esistenza di “buoni e cattivi”: un’operazione questa strumentale alla giustificazione da parte dei governi di conflitti che, in realtà, affondano le proprie radici in motivazioni totalmente differenti da quelle esplicitate al grande pubblico.
Indipendentemente da quelle che siano le ragioni che inducono i media a spingere l’acceleratore su un certo tipo di fotografia, è innegabile che il pubblico odierno provi un’attrazione quasi morbosa verso i fatti di sangue e di morte. È, quindi, opportuno porsi un interrogativo: che cosa rende la fotografia di guerra tanto appetibile? 
Una prima spiegazione la possiamo trovare in una motivazione di carattere ancestrale. Come brillantemente sottolineato dal filosofo e psicanalista James Hillman, già nella mitologia greca la dea della bellezza, Afrodite, veniva presentata come l’amante di Ares, dio della guerra. Se è vero che il mito può essere interpretato come la capacità dell’amore e della bellezza di mitigare la violenza della guerra, è altresì innegabile come il medesimo mito sottenda l’esistenza di un profondo e inscindibile legame tra guerra e bellezza.
Anche Platone in Leggi, la sua più lunga opera, si soffermò a riflettere sul ruolo della guerra nella società del tempo. Il filosofo mise in evidenza una caratteristica di vitale importanza di tale fenomeno: essa non può essere considerata come un incidente di percorso, non può essere ridotta a un episodio che di tanto in tanto si verifica, la guerra è, bensì, uno stato permanente. «Quella che la maggior parte degli uomini chiamano “pace” non è altro che un nome, ma nella realtà delle cose, per forza di natura, c’è sempre una guerra, se pur non dichiarata, di tutti gli stati contro tutti». Anche Immanuel Kant, facendo eco a Platone, nel suo Scritti di storia, politica e diritto evidenziò come «lo stato di pace tra gli uomini, che vivono gli uni affianco agli altri, non è uno stato naturale. Questo è piuttosto uno stato di guerra».
Se, dunque, possiamo considerare la guerra come uno stato permanente, come un elemento intrinseco alla natura umana, a risultare ancora poco chiare, a questo punto del ragionamento, sono le cause di essa. Cosa spinge, si chiede Tolstoj nel suo Guerra e pace, milioni di uomini a uccidersi a vicenda? Chi può aver loro ordinato di compiere un tanto scellerato atto? Le congetture a tal proposito potrebbero essere infinite, ma tutte confluiscono in un’unica ragione comune: l’essere umano è incapace di mettere in atto l’insegnamento del brocardo latino Carpe diem; egli, con il suo continuo vagare con la mente nel passato e nel futuro, non riesce a vivere il presente, il qui e ora. Causa della guerra, dunque, «non è il nemico, bensì l’immaginazione», come sottolineato da Hillman.
Questa immaginazione trova nella propaganda dei media, nelle religioni, nelle ideologie politiche, nella bramosia di potere e di ricchezza il proprio moto propulsivo. Ed è proprio perché la nostra immaginazione viene continuamente bombardata da tutto quanto poc’anzi elencato che la fotografia di guerra diviene oggetto del desiderio di larga parte della popolazione mondiale: essa è l’unico pasto che possiamo consumare per saziare la nostra immaginazione dopo aver letto sui quotidiani o aver appreso dalla televisione dell’esistenza di un conflitto in questa o quella parte del mondo.
A riprova di ciò, esemplare è il caso della prima guerra documentata fotograficamente, il conflitto di Crimea. Dato che, dopo due anni di guerra, l’opinione pubblica inglese – la quale si era già dimostrata contraria all’ingresso della Gran Bretagna nel conflitto – era rimasta profondamente turbata dalle condizioni dei soldati che si apprendevano dagli articoli redatti per il Times dall’inviato sul campo, l’allora duca di Newcastle si fece promotore di una spedizione fotografica. Un compito di tale rilevanza fu assegnato a Roger Fenton, uno dei più grandi fotografi dell’Ottocento, nonché fondatore della Royal PhotographicSociety (della quale abbiamo già parlato in un precedente articolo, clicca qui per leggerlo). Nella vastissima produzione fotografica che egli realizzò insieme al suo assistente Marcus Sparling, a colpire in particolar modo è la fotografia intitolata “La valle dell’ombra della morte” (clicca qui per vederla): sulla scena non vi sono uomini, né vivi né morti, solo e soltanto pietre e palle di cannone disseminate ovunque. Nonostante l’assenza di cadaveri, di truppe armate e di sangue, Fenton fu in grado di mostrare con incredibile sapienza la desolazione non solo della Guerra di Crimea, bensì di ogni guerra, passata, presente e futura.

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