di Stefano Sannino
Paese che vai, filosofia che trovi. Questo potrebbe essere, piuttosto superficialmente, un paradigma da tenere bene a mente quando si affronta la questione filosofica nel dettaglio. Nel particolare caso della Grecia antica, per esempio, la nascita della filosofia è giustificata proprio dalle premesse geografiche e dunque culturali tipiche di quel paese. Lo stesso si può dire, piuttosto superficialmente, di tutte le altre grandi correnti di pensiero.
Quando però ci si avvicina alla filosofia delle tre grandi religioni monoteiste (ebraismo, cristianesimo ed islam) la storia cambia.
Il caso specifico dell’ebraismo e della filosofia ad esso collegata è sicuramente degno di interesse in quanto per molti anni si è discusso, in campo accademico, sull’esistenza di una filosofia ebraica.
Le premesse culturali del pensiero filosofico, ovverosia il paradigma greco-politeista, sono infatti sostanzialmente diverse dalle premesse monoteiste, che rendono particolarmente difficile identificare la struttura del pensiero e del ragionamento filosofico in questi contesti.
Il problema principale è, in poche parole, coniugare l’idea di rivelazione divina con l’esigenza di una speculazione filosofica. Se il mondo è rivelazione di Dio e la Scrittura è la sua parola, come giustificare la necessità – tutta umana – di indagare l’Universo con la ragione?
Filosofi ebrei di ogni epoca hanno tentato di risolvere questo nodo logico adottando giustificazioni diverse. Entrambe si fondano però sull’idea che gli esseri umani siano distinguibili in due categorie: la prima, composta da coloro che ricevono una “grazia” da Dio, e la seconda, composta invece dalle masse incolte. È solo alla prima, secondo pensatori come Averroè, Maimonide e Tommaso d’Aquino, che si dispiegano le potenzialità del ragionamento filosofico. Solo ai colti, in breve, è dato indagare i segreti delle Scritture attraverso la filosofia.
Solo con la filosofia islamica di Averroé, nato con il nome di Ibn Rushd, questo argomento viene elaborato: ad ogni tipo di uomo corrisponderebbe dunque una particolare tipologia di argomentazioni. Agli spiriti forti stanno le argomentazioni filosofiche, quanto agli uomini comuni stanno le esortazioni e la retorica. Questo però, a differenza di quanto avvenne nel cristianesimo con la teoria delle due Verità (quella divina e quella filosofica), non portò – nel caso particolare di ebraismo ed islam – ad una schizofrenia filosofica.
Il problema del rapporto tra filosofia e religione venne profondamente sentito in seno alla classe accademica ebraica ed islamica, tanto che la distinzione tipicamente cristiana delle due verità venne scartata.
Dopotutto, guardando all’ebraismo questo è evidente: teologia, teosofia, religione essoterica e filosofia sono ambiti distinti, ma imbevuti l’uno dell’altro tanto da risultare come un unicum speculativo.
Questa profonda interconnessione tra speculazione razionale (filosofia) e precetto religioso è perfettamente esplicata da una parola non ebraica, bensì tedesca: religionsphilosophie.
Come avremo modo di vedere in questo ciclo di articoli dedicati al pensiero ebraico, dunque, filosofia e religione non sono nemiche che combattono un’eterna lotta sul pensiero umano, ma strumenti alleati che permettono al pensatore di indagare non solo la natura del cosmo, ma anche la stessa natura di Dio.
Dopotutto, il pensiero giudaico ha donato al mondo un frutto prezioso e ricco che nessun altro pensiero religioso è mai riuscito a cogliere e che, ancora oggi, influenza profondamente il pensiero occidentale su Dio e sulla sua natura: la Qabbalah.