di Alessandro Giugni
Tra l’11 e il 13 giugno la cittadina balneare di Carbis Bay, in Cornovaglia, è stata teatro del G7, primo summit internazionale svoltosi in presenza da quando è scoppiata la pandemia da Covid-19.
L’elemento peculiare dell’annuale vertice tra Stati Uniti, Regno Unito, Italia, Francia, Germania, Giappone e Canada è da individuarsi nella straordinaria presenza dei rappresentanti di India, Corea del Sud e Australia. La scelta di estendere l’invito a tali nazioni, aventi come comune denominatore la Cina in qualità di concorrente, sottende la precisa volontà geopolitica di creare un blocco democratico in grado di contrapporsi all’avanzata di potenze autarchiche e di regimi quali, appunto, la Cina, la Russia e l’Iran.
Dalla lettura della dichiarazione finale emerge, in primis, come gli Stati Uniti abbiano assunto nuovamente il ruolo di guida del cosiddetto ordine liberale internazionale. La maggior parte degli obiettivi fissati in suddetto documento, infatti, ricalcano perfettamente l’agenda di politica estera di Biden. Risulta necessario sottolineare come i paesi del Vecchio Continente abbiano cercato di mitigare le pretese statunitensi chiedendo che non venissero assunte posizioni estreme nei confronti di Pechino, considerando che la maggior parte di essi nutre un profondo interesse nella cooperazione economica con la Cina.
In secundis, nello statement del G7 gli USA hanno fatto confluire un piano di contrasto alla Belt and Road Initiative (meglio nota come Via della Seta), la quale costituisce uno dei cardini dell’espansionismo cinese nel mondo e che si sostanzia in un piano di investimenti diretti volti al miglioramento delle infrastrutture portuali e ferroviarie. Tale contro-piano prende il nome di Build Back Better for the World (B3W) e si discosta dal modello proposto da Pechino in quanto in virtù di esso le democrazie occidentali non si limiteranno a costruire strade, porti e ferrovie, bensì provvederanno anche all’adozione di politiche finalizzate al contrasto della corruzione, al rispetto dei diritti dei lavoratori, alla tutela dell’ambiente e, nota di non secondario rilievo, si impegneranno a non strangolare economicamente i Pesi in via di sviluppo sfruttando la trappola del debito.
Da ultimo, rilevante risulta essere il fatto che nella dichiarazione finale non si faccia mai riferimento all’Asia, bensì all’Indo-Pacifico. Detta dicitura fa riferimento a una regione creata dagli USA con l’intento di definire una serie di aree strategiche in grado di “circondare” il Dragone e di limitarne l’espansionismo in un’area sensibile come quella del continente asiatico. A tal fine, gli Stati Uniti possono già vantare il sostegno del Taiwan, come confermato da Xavier Chang, portavoce dell’ufficio presidenziale di quella che viene qualificata come “provincia ribelle”, il quale ha confermato l’impegno della sua regione ad approfondire la partnership con gli Stati del G7.
Dal summit emerge, dunque, una profonda presa di posizione nei confronti della Cina e della sua volontà espansionistica. Non resta che attendere la risposta di Pechino, la quale, con ogni probabilità, non tarderà ad arrivare.