Si è fatto un gran parlare della strage di Charleston, dove un giovane bianco ha aperto il fuoco in una chiesa frequentata da persone di colore e ha ucciso nove persone. Dylann Roof, questo il nome del ragazzo, ha poi candidamente ammesso che la sua intenzione era scatenare una guerra razziale, motivata dalla sua ideologia razzista che vede nel colore della pelle una discriminante tra persone degne e non degne di diritti e, in ultima analisi, di vita. Nei giorni successivi all’accaduto si sono succeduti articoli di giornale, servizi televisivi, prese di posizione di giornalisti, opinionisti e
politici, tutti all’insegna del pietismo per le vittime e della “tolleranza zero” per l’autore della strage. Non si sono sentite, in compenso, analisi approfondite sulle cause della strage e su come evitarne di simili in futuro. Un unico segno di riflessione è giunto dalla Casa Bianca, che ha espresso la necessità (ribadita ogni volta che c’è una strage simile e mai seguita dai fatti) di ridurre la possibilità di accesso alle armi. Notoriamente, infatti, acquistare un’arma, anche potente, negli USA è cosa semplice. Anche i supermercati hanno un reparto armeria ben rifornito. Questo approccio, incomprensibile alla mentalità europea, è ben radicato in quella americana. La possibilità di avere delle armi garantiva, ai tempi della rivoluzione che rese gli USA uno stato indipendente (1783), la sicurezza personale. Si viveva in tempi e luoghi selvaggi e pericolosi, dove difendersi da bestie feroci e umani non meno agguerriti era una necessità. Ma ciò che più contava era la possibilità di difendere la propria libertà. Le ex colonie britanniche si erano appena liberate dall’oppressore inglese e l’avere delle armi in ogni casa garantiva la possibilità di ribellione in caso fosse sorto un nuovo governo dittatoriale e illiberale. Queste idee sono rimaste ben radicate nella cultura d’oltre oceano e, anche se la società è assai cambiata, offrono molta resistenza a ogni tentativo di riduzione delle armi. Se si aggiunge la continua campagna mediatica di spettacolarizzazione del crimine e di diffusione della paura a fini politici, campagne che creano una percezione del crimine stesso sproporzionata rispetto alla realtà, si comprende la volontà dei cittadini di possedere un’arma per difendersi da eventuali malintenzionati. Infine, dobbiamo ricordare che la cultura degli USA è ancora giovane e non riesce a staccarsi da un’idea di “Far West” dove alla violenza si risponde con la violenza, senza intermediazioni di una “inutile” legge.
Ma siamo sicuri che la diffusione delle armi sia un deterrente per i criminali come si vorrebbe far credere? A me sembra l’esatto contrario.
Tanto per cominciare dobbiamo considerare un fatto tanto ovvio quanto (forse artatamente) ignorato: se le armi sono facilmente disponibili per la “brava gente”, lo sono anche per quella cattiva. Se così non fosse Dylann Roof non avrebbe potuto trovare l’arma con cui ha compiuto la strage o, per lo meno, avrebbe fatto molta più fatica. Non è irrilevante il fatto che il ragazzo abbia agito da solo. Non si tratta di un membro di qualche movimento terroristico o criminale organizzato, ma di un singolo ragazzo violento, con pesanti problemi psicologici o forse psichiatrici. Non avrebbe quindi avuto, probabilmente, la possibilità di rifornirsi tramite il canale del mercato nero di armi.
Secondo la lobby dei produttori di armi, però, il problema sarebbe l’opposto. I rappresentanti di tale lobby hanno rilasciato delle dichiarazioni che perfino Studio Aperto, TG non certo pacifista e di sinistra, ha definito “grottesche”. Secondo la lobby, infatti, la colpa della gravità della strage sarebbe del ministro di culto, il quale avrebbe impedito ai fedeli di portare armi in chiesa. Se non l’avesse fatto, a loro dire, sarebbero morte meno persone perché qualcuno avrebbe abbattuto subito l’assalitore. Una dichiarazione tanto disumana quanto assurda. Al di là della violenza e della mancanza di rispetto per la vita umana che si percepisce dietro queste frasi, ci viene da chiedere: e se l’eventuale fedele non avesse fatto in tempo a estrarre la pistola? E se sparando non avesse colpito subito l’assalitore? Avrebbe potuto seguirne una sparatoria con molte più vittime delle nove che ci sono state.
È dunque giusto ridurre l’accesso alle armi? Sicuramente sì, ma non si creda che possa essere la soluzione al problema, una sorta di panacea di tutti i mali.
Anche se pistole e fucili sparissero dalla circolazione, sarebbe comunque facile procurarsi i mezzi per un attentato. Basta una piccola ricerca su internet per scoprire un sacco di modi di costruirsi una bomba artigianale. Cercando su Google “come costruire una bomba” escono circa duecentonovantaseimila risultati. Se poi lo si cerca in inglese (how to make a bomb) di risultati ne escono ben cinquantanove milioni! E non crediate che trovare il materiale necessario sia una cosa tanto difficile. Si possono fabbricare bombe letali con materiali di facile reperimento.
Siamo dunque spacciati? Dobbiamo rassegnarci all’insicurezza? Dobbiamo rassegnarci a vivere in un mondo dove da un momento all’altro un ragazzo con problemi mentali o un razzista può entrare in chiesa, o in una scuola o in un cinema e aprire il fuoco uccidendoci? Ovviamente no. Dobbiamo scendere nel profondo del problema e cercar di capire le cause vere della strage. Perché dietro a gesti del genere c’è una storia di sofferenza, solitudine, degrado, disagio non ascoltato che portano al crescere della rabbia e della violenza in chi li subisce. Obama, invece di limitarsi a dichiarazioni contro le armi a cui, causa il potere delle lobby delle armi, non potrà dare seguito, dovrebbe riflettere sul perché certi fatti succedano negli USA, ma non, ad esempio, in Italia. Avete mai sentito di uno studente che ha fatto strage in una scuola italiana?
Il fatto è che da noi la violenza sociale è minore. Gli USA, nonostante le loro rigide leggi e la loro “tolleranza zero” hanno molti più problemi di delinquenza della nostra cara Italia. La cultura iper-competitiva e inumana degli Stati Uniti porta chi non è “vincente” ad essere isolato, emarginato. Chi non è “utile” al sistema economico è fonte di problemi e di vergogna per lo stato. Il problema della malattia mentale è ancora affrontato con disagio da parte delle istituzioni che tendono a non voler vedere, a lasciare che sia o, al massimo, cercano di risolvere il problema riempiendo le persone di psicofarmaci. È di moda in questi anni trattare i bambini troppo vivaci con il Ritalin, medicinale che aumenta sicuramente la concentrazione e la redditività del bambino, ma ha il non trascurabile effetto collaterale di portare la persona, alla lunga, ad avere idee suicide o omicide. Parecchi dei ragazzi che hanno compiuto stragi simili a quella di Charleston in questi ultimi anni erano in cura con farmaci del genere che vengono somministrati più nell’ottica di rendere le persone utili al sistema che non con l’ottica del benessere della persona stessa. Una società violenta, che vede nell’individuo solo uno strumento di produzione e che basa i rapporti tra gli individui stessi sulla competizione e sulla “lotta sociale” per primeggiare, piuttosto che sulla solidarietà e sulla collaborazione, non può che generare violenza in chi viene lasciato ai margini. Anche tutte le richieste di pena di morte per Roof che sono grandinate in questi giorni non sono che segni della stessa violenza. Che si uccida un innocente o un criminale, si è sempre e comunque degli assassini. Delitto a castigo sono frutto della stessa mentalità violenta. Dobbiamo superare il paradigma della società competitiva e del sistema giudiziario vendicativo. Perché carcere, pena di morte e altre punizioni simili sono solo e unicamente una vendetta organizzata e istituzionalizzata, ma non per questo diversa nel suo principio base da quella privata. Roof pagherà sicuramente per la sua colpa. La giustizia USA, si sa, non è tenera. E i cittadini americani si sentiranno soddisfatti per la fine del “mostro”. Almeno fino alla prossima strage e al prossimo mostro. E noi possiamo stare tranquilli? Fino ad ora non ci sono stati casi simili a quello di Charleston in Italia, ma la cultura italiana si sta sempre più americanizzando e l’aumento della competitività nelle persone, del bullismo nelle scuole e sui posti di lavoro, della violenza verbale nei dibattiti, lo dimostra ampiamente. Stiamo facendo l’inverso di quel che si dovrebbe fare. Invece di andar fieri delle nostre virtù e di investire su di esse per rendere la società sempre meno violenta e sempre più umana, ci stiamo “americanizzando”, importando quella cultura da pistoleri texani che di sicuro non può che portare guai. Credo sia necessaria una riflessione profonda e accurata su questi temi da parte di tutte le parti politiche, senza ipocrisie e lasciando da parte gli interessi elettorali per fare il bene del popolo italiano. Ne sarà capace l’attuale classe politica?
Enrico Proserpio