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LA BORIA DI MARCO TRAVAGLIO E LA SUA MORTE MEDIATICA

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di Endimion

 

Con l’arrivo di Mario Draghi, Marco Travaglio è mediaticamente finito.

La fronte che trasuda boria, viso tiratissimo dai lifting, saccenza a go go, sguardo verso l’alto o verso basso ma mai dritto negli occhi di uno che se la tira con spocchia, bugiardo consapevole di esserlo e numero uno dei leccaculo governativi: questo è Marco Travaglio, quando va in tv o scrive.

Ripete le solite cinque cose da anni, il suo porto sicuro si chiama Lilli Gruber e il programmino sul canale Nove è il contentino che gli stessi proprietari de Il Fatto gli danno per tenerlo buono e non andare a fare troppi danni; a scriver la verità, in tutti i casi, farebbe pochi danni visto che nessuno lo chiama, tranne i conduttori nostalgici della tv di Michele Santoro. Ormai il povero Travaglio, sbeffeggiato dalla maggior parte dei suoi colleghi perché si ostina a difendere un Governo indifendibile, che altrimenti non lo degnerebbe di minima considerazione, gira intorno ai soliti argomenti come un mantra e questa situazione ha oggettivamente stancato: Berlusconi è un affarista, Dell’utri è un mafioso, Mediaset è il porto sicuro della destra italiana, Conte è il miglior presidente del consiglio di sempre, si autodefinisce il pupillo di Montanelli e poche altre cavolate del genere fanno di Marco Travaglio un direttore stantio, fazioso e ormai monotono.

Pochi sanno la verità sull’addio di Travaglio a Il Giornale, ve la raccontiamo noi. Il buon direttore filo grillino ha sempre narrato che, andato via Indro Montanelli, lo seguì; non è così, ed il motivo del perché ce l’ha tanto con Silvio Berlusconi risiede nel fatto che il presidente di Forza Italia lo cacciò senza mezzi termini, per la spocchia e l’arrivismo che dimostrava in redazione e con i colleghi. Travaglio è rancoroso, vive male il paragone con gli altri perché sa di perdere su tutti fronti, dall’educazione alla professionalità; ce lo vedete in un confronto con Bruno Vespa o Nicola Porro? Infatti, non è mai andato a Porta a Porta perché in quello studio vigono pluralismo e confronti, indi per cui il buon direttore pseudo grillino (cambierà per l’ennesima volta casacca appena la sinistra da sola tornerà al potere) può trovarsi bene solo dalla Gruber o al massimo dall’Annunziata.

In politica, come nello showbusiness, la ruota gira sempre e, terminata l’esperienza grillina al Governo, Marco Travaglio tornerà nel dimenticatoio o al massimo a qualche apparizione a Otto e Mezzo; saranno nulle le citazioni de Il Fatto Quotidiano su tutte le reti Rai per il forzatissimo volere di Conte, Casalino e Spadafora. Ormai, il finto alunno del grande Montanelli ha finito tutte le cartucce o magari inizierà a spararne di nuove contro i nuovi politici emergenti del centro destra, ma a quel punto ci saranno anche volti giornalistici freschi per raccontare una realtà non spocchiosa, stantia e ripetitiva.

Come il lelemorismo e il santorismo, si spera finirà presto anche l’era dell’ignoranza grillina ed è a quel punto che il buon Travaglio dovrà cercarsi un altro lavoro o cambiare mood di opinioni, andando alla mercè di chi lo (ap)paga di più. Questo si chiama squallore giornalistico.