di Martina Grandori
Anno nuovo, culture nuove, nuove convivenze multirazziali. Sarebbe meraviglioso. Sarebbe un forte segnale di civiltà ed evoluzione.
Gli immigrati – e non mi riferisco principalmente ai disperati che arrivano con viaggi della transumanza via mare – dovrebbero diventare la nuova ricchezza dei centri abitati italiani.
Partiamo dall’esempio più forte, da Sadiq Khan, figlio di un autista d’autobus pachistano, studente modello, avvocato dei diritti civili, poi deputato blairiano, dal 9 maggio 2016 primo cittadino di una capitale sopravvissuta agli attentati del 2005, divisa dalla Brexit, è il primo sindaco musulmano praticante di una grande metropoli dell’Occidente.
Di primo acchito, il primo commento potrebbe essere quello del sì, certo non è difficile che si concretizzi uno scenario del genere visto che la città ha una popolazione per quasi metà fatta da cittadini nati all’estero o figlia di stranieri immigrati.
Uno come Khan potrebbe essere la fotografia progressista di un’Inghilterra, e magari dell’Europa, del ventunesimo secolo: il segno che la globalizzazione, l’immigrazione e la democrazia producono progresso, integrazione ed esemplari vicende umane come la sua.
Durante la campagna elettorale disse “mi sento musulmano, britannico, laburista, marito, padre e tifoso del Liverpool”. Invece un sindaco musulmano non è un risultato così scontato.
Fra le astuzie di Sadiq Khan che l’hanno portato alla vittoria, l’essere sempre stato allineato e rispettoso di quella cultura istituzionale che fa del Regno Unito un regno millenario, il regno della monarchia per antonomasia che il popolo adora, in cui crede e a cui non rinuncia.
Il Regno Unito è anche il regno con una costituzione non scritta, e per questo secondo alcuni londinesi snob dell’upper class, ancora più speciale. Ne “La Costituzione Inglese” di Walter Bagehot, celebre autore vittoriano fondamentale per comprendere la politica britannica moderna, la monarchia viene definita la ‘’parte nobile’’ del governo, che in una società vista come ‘’spettacolo teatrale’’ già nel 1867 aveva la funzione di affascinare il popolo e fargli accettare le decisioni politiche.
Oggi questo aspetto dell’essere allineati con la cultura inglese, e quindi con la monarchia, è ancora un punto cardine per vincere in politica. Poi dopo si può parlare di multiculturalità, multirazzialità e molto altro. Ma prima di tutto rispetto della cultura istituzionale, delle tradizioni, poi si può pensare ad integrare le culture, a diventare ombelico del mondo, passo che Londra sa fare meglio di altre città, essendo una world city a tutti gli effetti.
Per capire la scelta di un sindaco di origini pakistane, musulmano praticante e incline al dialogo con l’islam conservatore, paladino di ogni minoranza etnica, religiosa o sessuale basta dare uno sguardo alla composizione demografica della città: il 55% della popolazione è censito come “non bianchi, britannici”, il 35% è nato all’estero, un londinese su otto è musulmano.
Da tempo però il vero problema è un altro e si chiama Brexit. Quel baluardo aplomb, di stabilità che ha sempre fatto del Regno Unito un’isola felice, dove i cambiamenti ci sono stati ma sempre all’insegna del buon senso e buone maniere, dove l’opinione pubblica è più moderata (quasi allergica all’irruenza partigiana), sta traballando per colpa di Brexit. Una chiusura culturale, una macchia per la coscienza di tutto il Paese se fosse così.
In fondo “We are all Londoners” è la speranza di un progetto multietico e multiculturale che parte proprio dal caposaldo dal rispetto di tradizioni culturali millenarie. Da quelle non si prescinde e Sadiq Khan lo sa benissimo.