Se un guru del calcio europeo come Pep Guardiola, un bel giorno di metà giugno, affitta l’aereo per volare da Barcellona a Rimini e trascorrere 24 ore in compagnia dell’Arrigo e se nello stesso giorno Maurizio Sarri abbandona il suo buen retiro toscano per trasferirsi in Romagna, cenare al Caminetto di Milano Marittima e chiacchierare fino a notte fonda con i due, allora vuol dire che Sacchi è sempre Sacchi.
L’incontro, celebrato da una sbiadita foto finita sui social, è nato per caso e grazie a una telefonata. «Ero a Fusignano» racconta Sacchi con quegli occhioni fosforescenti «stavo guardando Napoli-Cagliari quando mi arriva una telefonata, era Guardiola. Mi fa: “Arrigo ma stai vedendo come gioca il Napoli?”». Ammirati entrambi, esponenti dell’identica schiatta in via d’estinzione di allenatori amanti del bel calcio, decisero allora di passare un giorno insieme a raccontarsi segreti, esperienze e giudizi impietosi sul resto della comunità del pallone. «Da mio padre, che produceva scarpe dalle parti di Lecco, ho ereditato il senso spiccato del dovere che è poi, col tempo, diventata ossessione, l’ossessione di fare bene e meglio il proprio lavoro» racconta l’Arrigo abbronzato quanto basta per nascondere i suoi anni, sotto l’ombrellone del bagno che l’ospita alla decima traversa di Milano Marittima. Ha da qualche settimana chiuso l’esperienza televisiva con Mediaset Premium dopo una vita spesa a raccontare aneddoti e segreti, a sferzare colleghi italianisti incalliti con i quali ha spesso fatto baruffa.
Sacchi ha alimentato lo stesso spirito polemico nella vita di tutti i giorni se è vero come racconta in privato, che di recente, uscito dall’ennesimo ingorgo sulla tangenziale di Bologna, ha spedito un sms a un amico amministratore di quella città per segnalare l’arretratezza della struttura e ha ricevuto una risposta che l’ha fatto impallidire («Mi ha detto: che ci sono le autorizzazioni, ci sono i soldi per allargare le corsie ma il nuovo ministro ha bloccato tutto»). Non sono solo le sorti del calcio italiano, splendida metafora del Belpaese, a suggerirgli il pessimismo cosmico. «Il calcio è lo specchio della società. Nel ’94, quando andammo con la Nazionale a salutare Berlusconi premier a palazzo Chigi e mi incitò a vincere il mondiale io gli risposi così: Dottore, per noi la missione è difficile, per lei sarà impossibile». Il ricordo piazzato lì, nel bel mezzo del fiume in piena, mentre intorno arrivano per scattare foto e strette di mano milanisti nostalgici o juventini orgogliosi a chiedergli di CR7. «Ho sempre votato per Berlusconi, tranne che sul referendum costituzionale. La prossima volta voterò per chi promette d’investire su ricerca e scuola», il giuramento da perfetto sognatore.
Nell’attesa che cambi l’Italia, l’inguaribile visionario continua a coltivare il folle proposito di cambiare il calcio italiano, rivoluzionato ai tempi del Milan «grazie a quel genio di Silvio». «Di recente ho incontrato Marocchi, mi ha confessato che quando era alla Juve guardavano a noi del Milan come al modello da imitare. Ecco: io vorrei che la Juve di Allegri diventasse un esempio illuminante di bellezza, armonia e stile di gioco così da trascinare tutto il movimento». È il suo modo garbato di cantarle alla nuova razza padrona. «Per vincere la Champions league ci vuole un calcio di dominio, pieno di coraggio e offensivo» la formula magica che un tempo, quello delle coppe vinte con Gullit e Baresi, sintetizzava con il famoso trittico «occhio, pazienza e bus del c.. ». Quando Ancelotti divenne allenatore del Real Madrid, il suo presidente Florentino Perez mi chiamò e mi chiese: Gli hai spiegato che qui non bisogna solo vincere?» racconta per segnare la differenza tra chi è schiavo del risultato e chi invece, come la Spagna per esempio, insegue canoni estetici irragiungibili forse.
Scusi Arrigo, ma allora cosa rimane oltre la Juve?
«Milano si sta attrezzando. Dell’Inter pensiamo tutti gli anni che sia la volta buona ma poi qualche conto non torna. Vuol dire che nella scala dei valori, prima la società poi la squadra, c’è qualche ingranaggio che non funziona alla perfezione. Il Milan invece è all’anno zero. Ora c’è un proprietario, Elliott, in carne e ossa e una solidità economica documentata».
Tra Juve e Milan, nello scambio Bonucci contro Higuain e Caldara chi ha fatto l’affare?
«Tutti e due. Higuain è una garanzia, Caldara un ragazzo molto intelligente e generoso, può solo migliorare».
Senza Sarri che campionato avremo?
«Di sicuro più povero. Ancelotti ha avuto coraggio nell’accettare quella panchina. Solo chi accetta il rischio evita la routine e rifugge dal pessimismo. Trova una squadra che ha molte conoscenze, Carlo è in grado di aggiungere del suo».
L’altro suo allievo prediletto è Di Francesco…
«Ecco: Eusebio è un maestro perché mette al centro il gioco. Il gioco, per chi non lo sapesse, non va mai fuori forma e non subisce infortuni. Certo ha bisogno di giocatori disposti a giocare per e con la squadra, dotati di modestia. I nemici degli sport di squadra sono tre: l’eccessivo protagonismo, l’individualismo e l’avidità. Se seguirà Di Francesco la Roma diventerà protagonista».
Chi sarà la rivelazione?
«Cristiano Ronaldo, e non è una battuta. È l’attaccante più letale al mondo, dotato d’intelligenza e straordinaria motivazione. Ultimamente è diventato anche più generoso. Il colpo della Juve è stato un capolavoro di Agnelli e Marotta perché per la prima volta è stata rafforzata la squadra e indebolita contestualmente la rivale più temibile per la Champions, il Real Madrid».
Ce la farà Mancini a sollevare le sorti della Nazionale?
«Dipenderà più dalla visione della Federcalcio che dal lavoro del ct. Io ci sono passato: quando lavoravo a Milanello trascorrevo 320 giorni all’anno ad allenare, a Coverciano sì e no 32 giorni complessivi. Puoi mettere delle pezze. Per questo motivo in azzurro non ho mai raggiunto la bellezza estetica toccata invece dal mio Milan».
E allora cosa bisogna fare?
«In Francia, Spagna e Germania hanno fatto così: centri di formazione permanente, un super-corso per allenatori non di un mese come capita da noi ma della durata di un anno almeno e un protocollo di lavoro spedito dalle nazionali alle società».
Mancini con Sacchi ct non giocò quasi mai…
«Roberto non ha mai avuto fortuna. Rendeva al massimo quando si sentiva protetto a casa sua, alla Samp. E poi aveva una concorrenza mica male: Roberto Baggio, Zola…».
Che mondiale è stato per Sacchi quello di Russia?
«Per il calcio si è trasformato in uno spot fenomenale. Ha vinto la Francia non proprio quella che ha giocato meglio. Ho apprezzato di più la Croazia».
Il calcio e il Paese hanno il problema degli stranieri e dell’immigrazione…
«Il mio pensiero è questo: se riesci a inserirli e a integrarli, puoi ricavarne innovazione e creatività. Se non riesci puoi raccogliere solo problemi».
C’è un rimedio per l’Italia?
«Abbiamo successo in un solo settore dove viene riconosciuto il nostro stile: la moda. Nel resto abbiamo disconosciuto tutti i principali valori: merito, bellezza, coraggio, idee, qualità che rendono l’uomo libero».
E sul punto Arrigo saluta, chiude la sdraio e inforca la bici. Continua a sentirsi un libero sognatore.
(Articolo pubblicato sul n° 35 di Panorama, in edicola dal 16 agosto 2018, con il titolo “Il mio fischio d’inizio”)