di Gabriele Rizza
Il giornalista Alessandro Sansoni, firma de Il Giornale Off, Limes e direttore del mensile Cultura Identità, ci ha concesso una lunga intervista a tutto campo sulle incognite e le speranze per il futuro degli italiani, partendo da un passato che ci ha spesso visti risorgere dalle ceneri.
Le opinioni riguardo il comportamento tenuto dagli italiani durante questa quarantena sono diversi. Alcuni enfatizzano la solidarietà ritrovata, altri il comportamento individualistico e rancoroso. Qual è la sua opinione?
«In molti hanno dato risalto alle forme di spirito comunitario e di solidarietà nella difficoltà. Storicamente parlando, sappiamo che, in occasione di eventi di calamità come questa, la situazione non è sempre stata rose e fiori. Conosciamo bene le pagine de I promessi sposi con la famosa caccia all’untore. Qualche cosa del genere è avvenuta anche in questi giorni, ad esempio sul sito del comune di Roma è stata predisposta una sorta di centralino preposto a raccogliere possibili segnalazioni di gente che magari non rispettava l’obbligo e l’invito a rimanere in casa. Il rischio vero di questo atteggiamento individualistico e rancoroso nei confronti del prossimo è che, con l’andare avanti del blocco delle attività e con l’esasperarsi di una situazione economica che presto sarà evidente in tutta la sua drammaticità, si possa peggiorare la situazione. Tra le altre cose, l’acuirsi del disagio sociale ed economico, nelle prossime settimane potrà costringerci a rimanere a casa dopo una certa ora per evitare di essere oggetto di rapine o di violenza dovute alla disperazione sociale, non necessariamente dell’economia illegale, ma piuttosto dell’economia borderline. È una situazione delicata, gli organi di informazione devono restare attenti e vigili rispetto a un problema che è complesso e che necessita di un’opinione pubblica informata, equilibrata e corretta».
Si dice che gli italiani siano maestri nell’arte dell’arrangiarsi e nell’esaltarsi nelle difficoltà. Lo sono ancora?
«La dobbiamo verificare ulteriormente. Nel nostro passato il popolo italiano era povero e lo è stato per lunghi anni dopo l’unificazione, fino agli anni ’60. In passato questo popolo creativo, ricco di intraprendenza e resistenza alle difficoltà, un popolo di agricoltori e non sempre di terra fertile, ha dimostrato di avere una tenacia che gli ha permesso di riscattarsi da situazioni drammatiche; adesso bisogna vedere se le generazioni attuali hanno ereditato queste qualità, di fatto dagli anni ‘60 in poi, tranne alcune parentesi, noi non abbiamo mai conosciuto momenti di autentica difficoltà economico sociale, almeno su larga scala. Adesso bisogna vedere se le nuove generazioni sono in grado di reagire. La speranza è che questo avvenga innanzitutto perché la crisi che si affaccia – e che viene spesso paragonata a qualcosa di simile ad un dopoguerra – è in realtà una crisi inedita: abbiamo un problema di difficoltà economica sia sul lato della domanda che sul lato dell’offerta. Bisogna capire come reagirà un’economia moderna come la nostra ad un blocco di due mesi. Sarà interessante vedere come piano piano riprenderanno a marciare le cose, anche perché non è immaginabile che i primi di maggio si riprenda subito a lavorare come prima, ci sarà una riapertura delle attività molto graduale».
L’Italia può farcela da sola a uscire da questo momento difficilissimo?
«Il nostro auspicio è che il popolo italiano possa trovare in sé stesso l’energia e il coraggio per ripartire, ma mai come oggi il mondo è fortemente interconnesso. Non è possibile ripartire da soli, il nostro è un paese fortemente dipendente dagli scenari internazionali, anche in ragione della sua forte esposizione sui mercati finanziari che potrebbe implicare dei seri problemi nel prossimo futuro. Le agenzie di rating potrebbero infatti declassare la sostenibilità del nostro debito pubblico, rendendo complicato finanziarci sui mercati. Allora è evidente che la risposta deve arrivare a un livello più ampio, quello europeo. Oggi come oggi tutti noi viviamo una fase che possiamo definire come ‘crinale della storia’: c’è una crisi della globalizzazione, probabilmente c’è anche una crisi dei nostri modelli di vita, ma chi veramente è in un momento decisivo è l’Europa. L’UE deve trovare le ragioni per sopravvivere a sé stessa, ad una struttura deficitaria e pasticciata. Se l’UE non riesce a trovare una risposta, il problema non sarà italiano. Se non si riesce ad andare aldilà del MES, con le sue condizionalità inaccettabili, a quel punto la grande traversata nel deserto di un’uscita dall’eurozona potrebbe essere addirittura conveniente. Va spiegato che il ritorno alla Lira è un’opzione plausibile che costa lacrime e sangue a tutti, ma se le stesse lacrime e sangue poi si devono scontare per avere un sostegno dell’Europa, può convenire andarsene per i fatti propri».
A questo punto quale sarebbe la soluzione più felice?
«La soluzione migliore sarebbe un’Europa che riesca a comprendere che l’Italia è una bomba ad orologeria e che, come tutti i grandi debitori, l’Italia ha un forte potere negoziale: se viene giù l’Italia viene giù tutta l’UE. Il problema non è chiedere la solidarietà degli altri paesi, bisogna capire che non è possibile immaginare un’Europa senza un’Italia in salute. L’auspicio è che i paesi europei riescano a comprendere fino in fondo questa necessità, mettendo in campo il necessario per sostenere tutta l’economia del continente e, contestualmente, riconfigurino l’architettura istituzionale ed economica dell’UE. Tutto questo è possibile soltanto se l’Europa riesce a darsi un profilo politico e a concepirsi come un sogno aggregante, a rifondarsi su determinati valori, non più laicisti e globalisti, e che sappia anche capire quale forma istituzionale abbracciare. Le soluzioni fino ad oggi intercettate sono state: l’Europa delle nazioni o quella federale, tutt’altra conviventi. Questi modelli hanno bisogno di essere superati. Una forma adatta ad un’Europa sovrana potrebbe essere analoga a quella della Confederazione Elvetica, un modello che riesce a costruire una compagine unitaria, ma tempo stesso rispettosa delle varie identità cantonali. Un’Europa continentale diventa un player internazionale in un mondo che si va a configurare in una logica multipolare, in cui aree continentali semi autarchiche si confrontano tra di loro, non in un modo aggressivo ma con pari dignità».