8 C
Milano
giovedì, 28 Novembre, 2024

Intervista al Professor Angelo Giarda. EMERGENZA COVID NELLE CARCERI E RIFORMA PRESCRIZIONE

- Advertisement -spot_imgspot_img
Annunci sponsorizzatispot_imgspot_img

di Gabriele Rizza

Tra cronaca politica e cronaca nera, gli italiani sono sempre più sensibili alle vicende e alle problematiche del diritto penale. Di tutti i temi più scottanti, come la riforma della prescrizione, l’emergenza Covid nelle carceri e il ruolo dell’avvocato moderno, ne abbiamo parlato con Angelo Giarda, Professore Emerito di Diritto Processuale Penale presso la Facoltà di Giurisprudenza Università del S. Cuore di Milano.

Quali sono le criticità della riforma della prescrizione entrata in vigore lo scorso gennaio (voluta dal ministro Bonafede)?

«Il problema vero non è tanto quello della prescrizione, perché è una tradizione secolare: l’idea per cui dopo un certo numero di anni non ha più senso l’intervento punitivo dello Stato, non si può accantonare. Il problema semmai è modulare la prescrizione. Certamente possiamo modificare i termini della prescrizione in funzione della gravità del reato e della sussistenza o meno delle circostanze aggravanti o attenuanti, ma quello che è mancato fino ad ora sono due previsioni fondamentali:  la prima è di fare una valutazione sulla capacità a delinquere della persona, che potrebbe tornare ad essere totalmente libero a seguito della prescrizione, la seconda è verificare se la persona è in grado di estinguere tutte le obbligazioni di carattere civilistico (e quindi di tutelare la vittima di questi fatti di reato). Per cui se vogliamo discutere sui termini e sui tempi possiamo farlo a lungo, però il fatto è che qualunque disciplina della prescrizione deve avere queste altre aggiunte: fare una valutazione della capacità a delinquere di chi è rimesso in libertà a seguito dell’avvenuta prescrizione, e vedere se questa persona è in grado di poter adempiere alle obbligazioni civili per tutelare il danneggiato dal reato dall’atro».

La pandemia ha aggravato la cd. emergenza carceraria. Ritiene che le strutture penitenziarie italiane siano in grado di assicurare una sufficiente prevenzione del virus? Inoltre, quali sono le misure che possono essere impiegate al fine di assicurare un corretto bilanciamento tra tutela della salute dei detenuti ed istanze punitive?

«Al fondo del problema carcerario c’è un equivoco che non è stato ancora chiarito: bisogna che una volta per tutte  lo Stato italiano si metta in testa che deve attuare la differenza che è imposta sia dalle norme del diritto europeo e sia delle norme del diritto internazionale dell’ONU per cui tra le situazioni carcerarie devono essere distinte quelle che ricevono le persone in esecuzione di pena da quelle che ricevono le persone in applicazione di una misura cautelare: in Italia questa distinzione non c’è. Purtroppo le carceri italiane servono sia per l’esecuzione della pena, sia per l’esecuzione di una misura cautelare. Queste due situazioni non sono compatibili in nessun modo tra di loro, perché coloro che sono sottoposti alla custodia cautelare sono assistiti dalla presunzione di innocenza. Se dovessimo fare questa doverosa distinzione tra le due situazioni, l’unico problema da prendere in considerazione sarebbe di strutturare l’interno del carcere e le modalità di restrizione della libertà personale in modo da poter garantire la distanza di sicurezza per evitare il contagio. Bisogna poi evitare l’uso della custodia cautelare in modo improprio: ho scritto più volte che molto spesso la magistratura italiana adotta la custodia cautelare in carcere in alternativa all’attività di indagine vera e propria, ossia la custodia cautelare viene usata per sollecitare la confessione o la chiamata di correo, già nel 1729 le Regie Costituzioni piemontesi affermavano che la custodia cautelare serve a ovviare all’eventuale carenza dell’attività di indagine: è un errore profondo, perché il diritto alla libertà prevale su ogni tipo di accertamento di carattere penalistico».

Il DPCM dello scorso 3 novembre ha disposto il rinvio delle prove scritte degli esami di abilitazione all’esercizio della professione forense, introducendo un ulteriore elemento di incertezza in termini di programmazione del futuro per molti giovani aspiranti avvocati. In generale, può delineare i cambiamenti che hanno interessato la sua professione negli ultimi decenni?

«L’avvocato non deve svolgere la propria professione pensando solo alla parcella, la deve invece svolgere pensando di essere uno degli elementi costituitivi dell’attività giurisdizionale. Agli studenti chiedevo una grande preparazione non solo riguardo il diritto penale e la procedura penale, ma anche riguardo tutte le altre componenti dell’ordinamento giuridico che fanno da presupposto e da elemento costitutivo. Poi consigliavo sempre di apprendere bene almeno due lingue, il francese e l’inglese, perché ormai in questi rapporti di carattere internazionale e sovranazionale queste due lingue sono come la lingua italiana e se non si sanno maneggiare non si riesce a comprendere il significato delle norme internazionali o sovranazionali che dobbiamo applicare, inoltre, senza le lingue, non riusciamo a capire nemmeno il significato delle norme di altri ordinamenti di cui si deve tener conto, basti pensare al reato sovranazionale: come si fa a comprenderlo se questo avviene ad esempio tra l’Italia e il Lussemburgo? Occorre poi avere una strumentazione adeguata, perché è chiaro che oggi la professione dell’avvocato richiede dell’impegno superiore a quello di una volta. Un tempo gli avvocati conoscevano la possibilità di fare una discussione sulla bancarotta fraudolenta piuttosto che sui diritti contro la persona perché erano sempre uguali, adesso non lo sono più: l’avvocato moderno deve essere capace di articolarsi e muoversi su tanti fronti, si pensi alla psicologia giuridica o ai reati tributari, senza queste conoscenze non si può più svolgere al meglio la professione. Infine, e cosa più importante, è di aver chiaro in che misura l’avvocato deve o può collaborare con l’attività di ricerca: l’avvocato non ha nessun dovere di collaborare con l’attività giudiziaria, perché il suo dovere è quello di difendere il proprio assistito, ma ha anche il dovere di non impedire in alcun modo l’attività di ricerca dell’autorità giudiziaria e di essere assolutamente chiaro. Non può utilizzare strumenti che impediscano l’accertamento della verità. Il dovere dell’avvocato è quello di esaltare tutte quelle parti del sistema che consentono di valutare adeguatamente la posizione del proprio assistito».

- Advertisement -spot_imgspot_img

Ultime notizie

Blusansevero

- Advertisement -spot_img

Notizie correlate

- Advertisement -spot_img